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Discorso sugli Italiani: la nostra storia, le nostre domande, i nostri problemi

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    silvanapat
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    00 09/08/2007 12:04
    LE MENSE DI FEDERICO II

    a cura di Patrizia Consoletti

    Ai tempi di questo imperatore (1234) rudi erano i costumi e il modo di vivere. Gli uomini portavano sul capo cuffie di squame di ferro, cucite a berretti che chiamavano majete.
    A tavola l’uomo e la donna mangiavano assieme nello stesso piatto. Sulle tavole non esisteva l’uso dei taglieri.
    In casa si contavano uno o due bicchieri. Di sera i commensali illuminavano la tavola con lucerne o con fiaccole rette dal servo o da qualcuno dei ragazzi: infatti non si usavano candele di cera o di sebo. Gli uomini portavano clamidi di pelliccia senza copertura oppure di lana senza fodere e cuffie di pignolato.

    Le donne indossavano cuffie di pignolato, anche quando partecipavano con i mariti alle feste di nozze. Modestissimo era allora il modo di vivere di uomini e donne. Raramente appariva l’oro e l’argento sulle vesti; anche il cibo era frugale.
    I plebei si nutrivano di carni fresche tre volte la settimana. A pranzo si consumavano verdure cotte con la carne, a cena la stessa carne fredda conservata. Non tutti consumavano vino d’estate.
    I ricchi portavano con sé piccole somme di denaro. Allora anguste le cantine, angusti i granai attigui alla dispensa. Le donne si sposavano con dote modesta perché parsimonioso era il loro stile di vita. In casa dei genitori le ragazze si accontentavano di una tunica di pignolato, chiamata sotano e di un vestito di lino che chiamavano xocca. Gli ornamenti della testa non erano preziosi, sia per le nubili che per le sposate.
    Le maritate portavano bende avvolte intorno al capo e al volto. La gloria degli uomini stava nelle armi e nei cavalli. La gloria dei nobili consisteva nel possedere torri. A quel tempo ogni città d’Italia appariva famosa grazie al numero delle torri.

    Federico si abbandonava spesso a "riunioni conviviali". Non ricche abbuffate ma cene raffinate cui partecipavano musici, romanzaturi, maestri dì fabbrica, belle donne. Alla Mensa di Federico, si discuteva di tutte quelle cose che lo avrebbero reso famoso: la poesia, l'arte, la musica, l'architettura.



    Altare maggiore della Cattedrale di Lucera, una volta mensa della domus di Fiorentino.

    Raramente si parlava di guerra, quasi a significare il profondo solco che l'imperatore poneva tra l'uno e l'altro momento della sua vita, della sua giornata. Tra tanti discorsi ameni, si dissertava anche di caccia, soprattutto durante le soste che si tenevano, tra una battuta e l'altra, nei boschi del Melfese, in quello dell'Incoronata nei pressi di Foggia o in quelli del Gargano.

    Nel Palazzo imperiale di Foggia i cibi erano serviti su un blocco di granito bruno del Gargano lungo circa quattro metri, sorretto da quattro pilastri tozzi: simile a quello che oggi è consacrato ad altare maggiore nella cattedrale di Lucera appartenuto alla domus di Fiorentino.



    Ma di cosa si cibava Federico II?

    Di carni allo spiedo, certamente sia in guerra che durante le lunghe battute di caccia. In particolare di lepri e di allodole. Il cinghiale, allora abbondante, non costituiva uno dei suoi piatti preferiti. A lui piacevano i volatili, fagiani compresi, che cacciava con i falchi. Particolarmente preferiti i colombi, spalmati con il miele e passati alla brace con erbe aromatiche.

    Non da meno amava il pesce. Così ordino' a Riccardo di Pucaro della Curia di Foggia il 28 Marzo 1240: "praeterea mandamus ut Berardo coco curia nostre facias dari de beni piscibus de Resina et aliis melioribus qui poterunt inveniri, ut de eis faciat askipeciam et gelatinam pro nobis, iuxta mandatum nostrum ad nos celeriter deferendas".

    La cui traduzione è pressappoco la seguente: "Alla tua fedeltà ordiniamo che a Berardo cuoco della nostra cucina, tu faccia pervenire dei buoni pesci di Lesina ed altri dei migliori che si possano trovare affinché egli ne faccia per noi l'aschipescia e la gelatina che manderai a noi in fretta secondo il nostro ordine ne è l'esatta dimostrazione".

    La "scapece" (così si chiama ora in Puglia) si può preparare con due tipi pesci: la razza e l'anguilla (le anguille provenivano dal Lago di Lesina, feudo del conte Matteo Gentile che fu anche signore di Fiorentino) trattata con l'aceto e conservato in un gelatina, molto usata in Puglia e Molise anche alle soglie del terzo millennio.

    Cosa dire dei funghi? I cronisti narrano che Federico ordinava che "prima li biancassino facendoli per poco bollire in acqua ed indi li salassero e li conservassero in cognetti (piccole botti cilindriche)". Un discorso a parte merita il pane, da non intendersi come il pane di cui ci cibiamo oggi. Si trattava, in effetti, di piccole forme biscottate fatte con fiore, latte, miele, burro e cotte in forni a legna.

    Vi era, anche, il pane "casareccio" confezionato con farina, lievito e sale e pane "Vendereccio", bianco, di semolone oppure oscuro di farina e crusca. Non meno importanti le verdure, che gustava specialmente, quando Soggiornava nel Palazzo Imperiale di Lucera. Erbe spontanee e verdure di cui la nostra città è stata sempre ben fornita: borragine, ruchetta, finocchietti, cicorielle, caccialepri, crispigni, cardoncelli. Di solito, le preferiva lessate con olio crudo.

    Queste erbe crescono tuttora in Puglia e sono mangiate ancora con lo stesso gusto e nello stesso modo, come vedremo appresso, con cui le mangiava l'Imperatore. Il tipico piatto lucerino "i fonghie ammisck" era, anche allora, uno dei piatti preferiti da Federico II tanto da farne una ricetta che, è giunta sino ai tempi nostri. Anche il "pancotto", che si mangiava ai tempi dell'Imperatore, è, tuttora, una delle specialità locali. Le erbette, anzidette, erano, e sono, la componente essenziale. Biscotti e miele erano usati nella dieta per disintossicarsi dal continuo utilizzo della carne.

    Un'altra volta disse sempre al giustiziere Riccardo: "Alla tua fedeltà ordiniamo che subito, senza indugi, tu faccia mandare alla nostra Curia tre salme di vino greco".

    Oltre al vino greco, come abbiamo visto preferito agli altri, Federico usava una bevanda, molto aromatica, da bere calda: l'acqua di calabrice.

    Il calabrice, pianta selvatica del Gargano, è simile ad un pero selvatico, dal frutto rosso e piccolo, mentre il nocciolo è simile a quello dell'ulivo. Il cronista dell'epoca, parlando di una bevanda "ristagnativa, incisa, attenuante", lascerebbe intendere che si potrebbe trattare dì un digestivo.

    Come frutta, all'epoca di Federico, c'erano fichi, noci, uva, datteri, mele, pere ed anche meloni. Non c'era ancora la pasta ed il nutrimento era costituito, in prevalenza, dal miglio, dall'orzo e dall'orzo perlato. Vi erano, invece, molti tipi di formaggi tipo il provolone, la mozzarella ed il pecorino che usava dare anche ai suoi cani preferiti. Della Puglia, che gli forniva tutto ciò che era possibile per approntare la Sua mensa, si dice che abbia esclamato: "È evidente che il Dio degli Ebrei non ha conosciuto l'Apulia e la Capitanata, altrimenti non avrebbe dato al suo popolo la Palestina come terra promessa".


    p.s. Simona ecco cosa mangiava Federicuccio tuo!
    [Modificato da silvanapat 10/08/2007 14:01]
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    Occhio per occhio....e il mondo diventa cieco (Gandhi)
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    silvanapat
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    00 09/08/2007 15:40
    LA PROPAGANDA POLITICA APOCALITTICA DEL PAPATO CONTRO FEDERICO II


    L’età medioevale è, dal punto di vista politico-ideologico, un età molto complessa e distante dalle nostre attuali concezioni.

    Il confronto e lo scontro dei grandi poteri universali di quest’epoca, Impero e Papato, avvenne difatti non solo tramite la guerra aperta o una propaganda politica "razionale", ma spesso trasse forza e s’ispirò a terminologie e concetti biblici apocalittici, per noi oggi di valore solo simbolico, ma per quel tempo densi di significati reali.

    Simboli, numeri e immagini, ereditati dall’antichità giudaico-cristiana, erano infatti ben presenti nelle menti delle genti d’Europa che, di generazione in generazione, attesero, perlomeno in modo intermittente, un qualche evento improvviso e miracoloso per cui il mondo, dopo un prodigioso conflitto tra le schiere angeliche di Cristo e gli eserciti dell’Anticristo, si sarebbe completamente trasformato divenendo migliore

    In generale più volte , tra la fine dell’undicesimo e la prima metà del quindicesimo secolo, nel continente europeo avvenne che il desiderio dei poveri di migliorare le proprie condizioni materiali di vita fosse pervaso da fantasie apocalittiche, e non di rado accadde che questa massa di diseredati e disperati si facesse conquistare da un profeta del millennio.

    I pilastri del potere nel medioevo , Impero e Papato, come sopraccennato, erano consapevoli della forte presenza di questa tradizione apocalittica presso la società e la utilizzarono a loro vantaggio come un efficace strumento di propaganda e lotta politica.

    Nell’arco temporale in cui in Italia infiammò la guerra tra Papato e Impero, tra Guelfi e Ghibellini, tra Federico II e i Comuni, la Santa Chiesa di Roma supportò la propria azione politico-militare anti sveva facendo ricorso proprio ad una possente propaganda ricca di simboli e significati apocalittici.

    Primo segno di questa precisa strategia propagandistica fu l’organizzazione nel 1233 del cosiddetto movimento allelujatico: una grande campagna di predicazione religiosa ad opera dei domenicani, che aveva l’obbiettivo d’incanalare, gestire e controllare le forze dei comuni dell’Italia divisa in guelfi e ghibellini.

    Questo movimento, che fece grande uso di simbologie apocalittiche, ebbe un grande successo riuscendo a recuperare un largo consenso presso le genti del nord Italia. Chiara testimonianza dei risultati che questa devozione dell’alleluja raggiunse ci è data da uno scritto di un frate lombardo il quale fu tra i principali organizzatori della predicazione: " quasi tutte le città della lombardia e della marca-diceva il frate- rimettono nelle mani dei frati le loro questioni e i loro statuti, perché essi li ordinino e mutino secondo la propria volontà".

    Il movimento allelujatico fu un vero e proprio movimento propagandistico con finalità politiche e Federico II, che ben comprese questo, benché nel 1233 non fosse in guerra aperta con il papato, vietò espressamente in tutta l’Italia meridionale lo svolgimento di tale devozione.

    Sei anni dopo questa vincente mossa, nel 1239, papa Gregorio IX, trascorsi ben nove anni di tregua con l’imperatore(pace di San Germano 1230), decise di passare dall’offensiva indiretta, all’offensiva diretta.

    Principio coerente e fondante della sua dichiarazione di guerra fu la scomunica che scagliò contro il suo avversario Federico degli Hohenstaufen, a cui dedicò l’apocalittica enciclica Ascendit de mari in cui l’imperatore svevo è così descritto:


    " Ecco la bestia che sale dal fondo del mare con la bocca piena di blasfemia, con le unghie dell’orso e la rabbia del leone, col corpo simile a quello del leopardo. Essa apre la gola per vomitar l’ingiuria contro Dio; lancia senza tregua i suoi strali contro il tabernacolo del Signore e i santi del cielo. L’imperatore, levandosi al di sopra di tutto ciò che si chiama Dio e prendendo indegni apostati per agenti della perversità sua, si erige ad angelo di luce sul monte dell’orgoglio. Egli minaccia di rovesciare il seggio di san Pietro, di sostituire alla fede cristiana gli antichi riti dei popoli pagani, e assidendosi nel tempio usurpa le funzioni del sacerdozio".


    La similitudine non poteva essere più chiara ed esplicita, l’imperatore svevo era l’Anticristo dell’Apocalisse biblica.

    Il testo dell’enciclica papale traeva indiscutibilmente la sua forza dal passo del Libro della Rivelazione in cui San Giovanni scrive:

    " Allora vidi salire dal mare una fiera con dieci corna e sette teste…"(Apocalisse 13, 1-8).


    L’attacco frontale all’autorità imperiale fu un’opera d’arte d’eloquenza apocalittica. Gregorio IX, utilizzando il più simbolico tra i passi biblici, colpì il potere dell’imperatore privandolo della legittimità di cui questi indiscutibilmente necessitava: quale potere era più illegittimo di quello di Satana e dell’Anticristo?

    Gregorio IX e l’apparato predicazionistico-propagandistico della Chiesa, da quel momento in poi, scatenarono un violentissimo assalto alla figura di Federico II facendo tesoro di ogni informazione che in passato avevano potuto raccogliere circa: le sue azioni contro il clero siciliano, i suoi rapporti con "i satanici infedeli" dell’Islam, il suo "insano" desiderio di conoscenza e tutto ciò che potesse risultare immorale e difforme dalla regola e dalla mentalità cristiana.

    Gli attacchi quindi si moltiplicarono e confermarono nei toni e nei contenuti.


    Papa Innocenzo IV , quasi a conferma della sopracitata enciclica Ascendit de mari il 24 Giugno 1245, scomunicò e depose Federico II quale " servitore dell’Anticristo", bandendo contro di lui la crociata di tutti i popoli cristiani, mentre l’avvocato pontificio Alberto di Beham, con ulteriore determinazione, scriveva dell’imperatore svevo:" Nuovo Lucifero, egli ha tentato di scalare il cielo, d’innalzare il suo trono al di sopra degli astri, per divenire superiore al vicario dell’Altissimo.
    Ha istituito e deposto vescovi; seduto nel tempio del Signore come se fosse il Signore, si fa baciare i piedi dai prelati e dai chierici, e ordina che lo chiamino santo. Ha voluto assidersi sulla cattedra di Dio come fosse Dio; non solo ha procurato di sottomettere al suo dominio la sede apostolica, ma ha voluto usurpare il diritto divino, mutar l’alleanza stabilita dal Vangelo, cambiare le leggi e le condizioni della vita degli uomini."


    Nessuna pietà per l’imperatore scellerato!

    Il monito doveva essere chiaro a tutti i regnanti d’Europa: la collera divina si sarebbe scagliata su coloro i quali avessero osato mettere in discussione il potere della Chiesa.

    La propaganda politica apocalittica contro Federico II fu quindi nel suo complesso una parte basilare delle strategie ecclesiastiche nella guerra contro l’Impero. Delegittimare l’avversario per legittimare la propria azione, identificare un Imperatore temuto e rispettato da tutto il mondo, con il re degli inferi.


    La linea strategica del Papato è forse anche troppo chiara. Ma per quanto fosse chiara e riconoscibile questa strategia, questa propaganda a sfondo apocalittico, che continuò addirittura anche dopo la morte dell’imperatore, non riuscì ad intaccare l’opera e il ricordo dello stupor mundi, dell’uomo che, dalla parte opposta alla Chiesa, era visto come il Messia e non come il Diavolo, dell’Imperatore che, narrano le leggende dalla sua grandezza ispirate, non era mai morto, bensì:
    "era entrato nelle viscere dell’Etna mentre una fiammeggiante armata di cavalieri scendeva nel mare sibilante".





    Figura 1- Praemissiones, Roma Bibblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 4959, fol.2r.

    La vera novità delle rappresentazioni della bestia apocalittica nelle Praemissiones sta però nel fatto che mentre nel Liber figurarum la settima testa venne attribuita all'ultimo (settimo) Anticristo, la cui identità non venne specificata, ora essa viene identificata con Federico II.



    Figura 2 - Liber de oneribus prophetarum, Roma Bibblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. Lat. 3822, fol.5r

    La enorme settima testa del drago nel codice vaticano sembra a prima vista portare una giubba leonina, ma a ben vedere si tratta delle dieci corna della bestia apocalittica, di cui si parla nell' Apocalisse di Giovanni (13,1: 1/ vidi salir dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, e sulle corna dieci diademi, e sulle teste nomi di bestemmia"). Una novità nella miniatura, di cui parliamo, sono i monaci scalzi, probabilmente francescani, rappresentati nella coda della bestia che alzano il dito contro la testa della coda, rappresentante l'ultimo Anticristo, Gog. Nuova è anche un'aggiunta alla frase annunciante la venuta di Federico, la sua prossima rovina e la venuta di un altro: "scilicet ultimus de successione sua de tercio nido natus". L’altro sarebbe quindi un ultimo discendente dell'imperatore, nato da un terzo nido, un'indicazione (forse volutamente) enigmatica, che è difficile da interpretare. Potrebbe trattarsi di un accenno a un figlio di Federico II dal suo terzo matrimonio con Isabella d'Inghilterra, oppure da una terza unione, quindi di un figlio naturale, come per esempio Federico di Antiochia.

    Va notato che mentre nella leggenda al di sotto della settima testa viene spiegato che lo svevo è soltanto il predecessore dell'Anticristo, attraverso la indicazione della stessa testa come Fredericus II (alla sua destra), un osservatore superficiale poteva comunque avere !'impressione che la bestia apocalittica rappresentata, era Federico II stesso.

    Come reagì l'imperatore alla propaganda papale che cercava di screditarlo come miscredente, eretico, predecessore dell'Anticristo o Anticristo stesso?

    La difesa e il contro-attacco di Federico II si svolsero su più piani: l'imperatore, presentandosi come garante dell' ordine stabilito da Dio e il principe della pace, respinse dapprima le accuse del papa come assolutamente infondate e pretestuose; poi evidenziò i veri scopi politici del pontefice chiamandolo Fariseo e accusandolo di collaborare con gli eretici lombardi, da lui, Federico, come difensore della fede, sempre combattuti; inoltre, denunciò l'avidità di denaro del papato e la sua sete di potere; e infine, ricorrendo alla stessa profezia di Giovanni, accusò il papa di essere lui la vera bestia apocalittica. Scrive infatti in una lettera, redatta probabilmente da Pier della Vigna nel luglio 1239, a riguardo del papa: "Seduto sulla cattedra della dottrina pervertita, il Fariseo, unto dai suoi compagni con l'olio della malignità, lui, il pontefice romano del nostro tempo, ha la pretesa di togliere ogni significato all'ordine decretato dal cielo, credendo forse d'essere in accordo con le cose che vengono dall'alto, che sono dirette dalle leggi della natura e non da una volontà esacerbata! Egli medita di oscurare lo splendore della nostra maestà, travisando la verità (veritate in fabulam commutata). (...) Non ha forse scritto, questo papa, che è tale solo di nome, che noi eravamo la bestia uscita dal mare, piena di nomi di blasfemia, dal corpo screziato come quello del leopardo? Ma noi invece sosteniamo che è proprio lui quella belva, di cui si legge: "egli fece uscire dal mare un altro cavallo fulvo (...)"".

    Federico smentisce poi, punto per punto, come false ed infondate tutte le accuse rivoltegli dal papa mettenti in dubbio la sua fede cattolica [14].

    In questo periodo dello scontro finale tra imperatore e papa, iniziato con la circolare di Gregorio IX del 1239, dinanzi citata, la propagandamperiale non esita ad esaltare Federico II come nuovo Messia.

    L'imperatore rivolge un'attenzione particolare al suo luogo natio, Jesi, che osa paragonare a Betlemme, luogo di nascita di Gesù Cristo: "Obbedendo alla voce della natura, siamo spinti e costretti a stringere nelle nostre braccia Jesi, nobile città delle Marche, illustre inizio delle nostre origini, in cui la nostra divina madre ci ha messo al mondo, sulla quale la nostra culla ha diffuso la sua luce radiosa. Noi lo facciamo, perché il luogo dove tu sei nato non scompaia mai dalla nostra memoria e perché la nostra Betlemme, terra ed origine di Cesare, resti nel più profondo del nostro cuore. Così Betlemme città delle Marche, tu non sei la più piccola tra i principi della nostra stirpe. (Unde tu, Bethleem, civitas Marchie non minima es in generis nostri principibus). Da te, infatti, è uscito il dux, il principe dell'Impero romano, per regnare sul tuo popolo, per proteggerlo e per non permettere più che sia sottoposto al giogo straniero. Alzati, dunque, o nostra prima madre, scuoti da te il giogo straniero! Poiché noi abbiamo pietà dei pesi che vi opprimono, voi e gli altri nostri fedeli (...)"[15] .

    Federico si presenta come il Redentore, nel significato, in cui le sacre scritture usano questo termine: "Poiché è venuto il tempo nel quale voi, che siete sempre stati graditi ai nostri occhi ed agli occhi dell'Impero, potete rendervi ancor più graditi, noi vi preghiamo: Su, in piedi! Mutate la vostra disposizione d'animo per scorgere la saggezza e la forza del regno. Riconosceteci vostro principe e vostro generoso signore! Preparate le vie del Signore e spianate i sentieri (Parate viam Domini, rectas facite semitas eius, Matt. 3,3). Aprite le vostre porte affinché arrivi il nostro Cesare, Cesare che è terribile contro i ribelli e benevole con voi, e la cui forza ridurrà al silenzio gli spiriti malvagi che per tanto tempo vi hanno tormentato... È giunto il momento della vostra redenzione, dolce alla vostra attesa, ed anche alla nostra[16].

    Uno studioso della letteratura encomiastica in onore dell'imperatore ha osservato recentemente a proposito del parallelo tra Cristo e Federico II, stabilito nei testi di Pier della Vigna e di altri: "Il paragone col Dio fatto uomo, frequentissimo nella produzione della cerchia federiciana, assume, in un'epoca in cui si attendeva un messia incarnato, una connotazione escatologica e ieratica talmente radicata da travalicare i limiti del gioco letterario"[17].

    L'esaltazione di Federico II con tratti messianici nella propaganda imperiale venne da parte pontificia considerata blasfema e la propaganda papale non tardò a denunciare altri atteggiamenti dell'imperatore giudicati nello stesso modo. In un libello accusatorio contro l'imperatore, presentato dal cardinale Ranieri Capocci al concilio di Lione, si legge:" Lui, il nemico della croce, fece portare davanti a sé la croce, attraversando le terre degli scomunicati, e nel territorio di Foligno e di Gubbio ardì benedire sfrontatamente coloro che la Chiesa aveva maledetto, benedicendoli con la propria mano empia, stando al racconto di quelli che hanno assistito a questa scena. E nelle menzionate e in altre terre, colpite dall'interdetto, si fece ad alta voce dire messe e celebrare altri uffici divini, lui, il precursore dell'Anticristo"[18]. A differenza di Kantorowicz, che ritenne credibile questo racconto[19], ritengo che esso vada interpretato con grande cautela, in quanto facente parte delle accuse, sollevate contro Federico II nel concilio di Lione (1245), che erano in parte pura invenzione della propaganda papale. Che l'imperatore avesse veramente proceduto" alla benedizione del popolo", come ritenne Kantorowicz, con riferimento "ai noti precedenti dei re francesi e inglesi"[20], mi sembra poco probabile, mentre è pensabile che in occasioni solenni si facesse processionalmente precedere dalla croce.

    Con ancora maggiore prudenza va vagliata la notizia, di solito accettata sulla scorta di Kantorowicz, secondo cui lo scomunicato Federico II nella festa di Natale del 1239 avrebbe predicato nella cattedrale di Pisa. Come sempre le parole di Kantorowicz sono suggestive: "Federico, lo scomunicato, entrò in Pisa il Natale, giorno precedente quello del suo compleanno. Con la sua presenza portava l'interdetto sulla città, ma, a dispetto dell'interdetto, fece ugualmente tenere il servizio divino e volle che si compissero i misteri; addirittura, salito sul pulpito del duomo di Pisa nel giorno di Natale, si mise a predicare al popolo. E deve aver preannunciato ai fedeli sbalorditi il regno della pace e la prossimità del suo avvento: e come principe della pace, messia e salvatore, irrompeva alcuni giorni dopo nelle province del papa... "[21]. La fonte, da cui deriva questa notizia è la Vita Gregorii IX, notoriamente ostile e diffamatoria nei confronti di Federico II, e inoltre essa è stata interpretata in modo arbitrario da Kantorowicz, come ha recentemente evidenziato Wolfgang Stürner nel secondo volume della sua fondamentale biografia di Federico II, pubblicato nel 2000[22], purtroppo non ancora tradotto in italiano.

    Insomma sia la notizia su Federico benedicente, sia quella su Federico predicante, sono probabilmente frutto della propaganda pontificia tesa a screditare l'imperatore come blasfemo.

    Lo scontro propagandistico tra Federico II e il papato, con i suoi toni esasperati ed escatologici, ha influenzato non poco il mito federiciano oscillante tra i due poli estremi dell'Anticristo e del novello Messia.

    Riesce difficile stabilire la diffusione di questi miti tra la popolazione. Sembra che la propaganda imperiale, indirizzata per lo più agli alti ranghi della gerarchia laica ed ecclesiastica, abbia raggiunto soltanto un pubblico limitato, mentre quella papale mediante il formidabile strumento della propaganda francescana sia stata diffusa in modo capillare in tutta l'Europa.

    Tra la popolazione il mito dell'imperatore sopravvisse comunque alla sua morte. Riferisce infatti Salimbene da Parma: "molti credettero egli non sia morto, benché in verità era morto. E così si avverò la profezia della Sibilla che disse: "Si dirà tra i popoli: Vive e non vive"[23].

    Una prova per il fatto che alcuni anni dopo la morte di Federico II, avvenuta nel 1250, c'erano ancora persone convinte che l'imperatore fosse ancora in vita, sono quattro scommesse che un orafo di San Gimignano depositava nel 1257 presso un notaio[24]

    Che non si tratti di un caso singolare, dimostrano i successi che negli anni seguenti ebbero alcuni millantatori che si spacciarono per il ritornato Federico II.

    Il primo caso di questo genere avvenne nel 1261 in Sicilia. Un mendicante, un tal Giovanni de Cocleria, a cui si era detto che assomigliasse a Federico II, si era ritirato sull'Etna, si era fatto crescere la barba, e si era allenato di imitare l'imperatore in gesti e parole (mores et verba). Il successo andò oltre le sue aspettative: seguaci dello svevo andarono a trovarlo e confermarono che si trattava dell'imperatore. Rimase da spiegare, perché per più di dieci anni lo svevo fosse sparito. La spiegazione data fu che egli, per fare penitenza per i suoi numerosi peccati, avrebbe intrapreso in incognito un pellegrinaggio durato più di nove anni. La popolazione gli credette e il papa, Urbano IV, fece finta di farlo, perché cercò di usarlo nella lotta contro Manfredi. Questi, consapevole dell'imbroglio, fece catturare e impiccare l'impostore con dodici dei suoi seguaci[25].

    Forse non è un caso che il primo dei falsi Federici apparve nella zona dell'Etna. Si credeva infatti che all'interno o nei pressi di questo vulcano fossero nascosti re Artù e Federico II. Un francescano inglese, Tommaso di Eccleston, racconta infatti di un suo confratello che avrebbe visto all' epoca della morte dell'imperatore entrare nel mare 5000 cavalieri, facendo ribollire l'acqua del mare come se le loro armature fossero di metallo bollente. Alla domanda del frate, su chi fossero, uno dei cavalieri avrebbe risposto che si trattava di Federico II e dei suoi seguaci che entravano nell'Etna[26]. È dubbio se da questa storia sia nata la leggenda, che si formò più tardi in Germania, secondo cui Federico II sarebbe nascosto nel monte Kyffhäuser in Turingia, perché tale leggenda è legata all' aspettativa positiva di un ritorno dello svevo, mentre la visione del francescano ha un significato piuttosto negativo: l'entrata dell'imperatore, morto scomunicato, nell'Etna sta a significare il suo ingresso nell'inferno, che si credette ubicato all'interno del vulcano eruttante fuoco[27].

    Che ancora negli anni ottanta del Duecento, in Italia qualcuno non ritenesse escluso che Federico non fosse ancora morto, è dimostrato dal fatto che nel 1283, quando in Germania ebbe un certo successo un altro impostore spacciatosi per Federico II, un tale Dietrich Holzschuh, che risiedeva a Neuss nella bassa Renania, il marchese d'Este e alcuni comuni lombardi inviarono delegazioni in Germania per accertare la possibilità che si trattasse veramente di Federico II (che avrebbe avuto l'età di 88 anni!)[28].

    Ma la profezia sibillina "Vivit, non vivit" poteva essere interpretata, oltre nel senso di una sopravvivenza di Federico stesso, in quella della sopravvivenza nei suoi discendenti. La profezia intera era infatti la seguente: "Oculos eius morte claudet abscondita supervivetque; sonabit et in populis: "Vivi t, non vivit", uno ex pullis pullisque pullorum superstite"[29].

    Vale a dire: "Chiuderà gli occhi con una morte nascosta e sopravvivrà; e si dirà tra i popoli: "Vive, (e) non vive"; e sopravvivrà uno dei pulcini e dei pulcini dei pulcini". E qui viene da pensare all'enigmatica profezia sull'ultimo Anticristo discendente federiciano dal terzo nido che abbiamo incontrato nel Liber de oneribus prophetarum attribuito a Gioacchino da Fiore.

    Dopo che con la morte di Corradino, avvenuta nel 1268, erano svanite definitivamente le speranze in un diretto discendente di Federico II, cominciò a diffondersi la speranza in un terzo Federico, discendente indiretto, cioè per linea femminile, dello svevo.

    Così alcuni ghibellini italiani basarono le loro speranze su Federico, figlio di Margarita, nata dal terzo matrimonio di Federico II (con Isabella d'Inghilterra), sposata con il langravio di Turingia e margravio di Meissen. Questo Federico, nato nel 1257, nel 1269 e nel 1270 firmò alcune lettere come Federico III, re di Gerusalemme e di Sicilia. Ma le speranze dei ghibellini svanirono quando questi non riuscì ad essere eletto re di Germania, carica assunta invece nel 1273 da Rodolfo d'Asburgo[30].

    Si trovò però presto un altro terzo Federico nel figlio omonimo di Pietro III d'Aragona e di Costanza, figlia di Manfredi. Dopo i Vespri Siciliani (1282) questo pronipote dell'imperatore svevo governò la Sicilia inizialmente in nome di re Giacomo II d'Aragona, ma nel 1296 fu proclamato re di Sicilia da un parlamento siciliano riunitosi a Catania. Egli si vide come il terzo Federico delle profezie citate, perché si intitolò Federico III, nonostante che come re di Sicilia fosse soltanto il secondo di questo nome (si sarebbe quindi dovuto chiamare Federico II). Soltanto nel 1331, quando il re romano-tedesco Enrico VII (di Lussemburgo) venne in Italia per essere incoronato imperatore, il Federico siciliano dovette abbandonare la sua pretesa di essere il terzo Federico ed assumere il titolo di Federico II[31] .

    La speranza in un nuovo Federico che avrebbe castigato la Chiesa corrotta si mantenne ancora a lungo: cito soltanto l'esempio di fra Dolcino, bruciato come eretico nel 1307 e ricordato da Dante nell'Inferno (canto 28) (e poi da Umberto Eco in Il nome della rosa), il quale, influenzato da idee gioachimite profetizzò l'avvento di un nuovo Federico che, insieme con un papa angelico avrebbe purificato la Chiesa e regnato fino all'arrivo dell'Anticristo[32].

    Anche se rimase delusa l'attesa di un ritorno di Federico II e la speranza dell'avvento di un nuovo Federico castigatore della Chiesa, la profezia sibillina si è però avverata, se pensiamo alla sopravivenza del mito federiciano ancora oggi all'inizio del terzo millennio: "Vivit, non vivi t".



    Nota preliminare: Questo articolo e tratto da una conferenza tenuta a Jesi, presso l'Hotel Federico II, il 5 novembre 2005 a conclusione delle celebrazioni dell'810° anniversario della nascita di Federico II.
    [Modificato da silvanapat 09/08/2007 19:46]
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    In memoria....
    it.youtube.com/watch?v=F5MZmJLMQ9Y

    Ecco cosa è rimasto dello Splendore della Sicilia di Federico.
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    00 09/08/2007 18:41

    Realtà e leggenda di un presunto incontro

    di FEDERICO II con FRANCESCO D’ASSISI




    San Francesco d'Assisi da un affresco del Cimabue.


    Molte situazioni del Medio Evo ci sono pervenute in due diverse versioni: una mitica, leggendaria, poco credibile ma sicuramente appagante; ed una tramandata dalle cronache o dalla tradizione che, spesso incompleta, è destinata in ogni caso a sollecitare la fantasia degli storici. Questo si propone anche per un presunto incontro tra Federico II e Francesco d’Assisi.

    Il cronista Arduino Terzi nella sua Cronologia della vita di San Francesco, riferisce che un giorno Federico II venne a sapere che un certo frate assisano, predicando nel Regno, apostrofava con parole di fuoco i personaggi della sua Corte: essi non potevano certo ambire alla salvezza eterna, prigionieri com’erano del vizio e della lussuria. Federico non si scompose; uomo di mondo, sapeva che il più delle volte coloro che predicano bene razzolano male. "Proviamo a metterlo alla prova" ordinò ai suoi; e scattò subito una trappola infernale.

    Una sera Francesco fu invitato nel castello di Bari e, dopo una cena degna delle migliori libagioni imperiali alla quale partecipò solo come umile ma accorto spettatore, "gli fu preparato un comodo letto con un focolare dato che era d’inverno".

    Mentre il poverello, come sua consuetudine, si accingeva a riposare sulla nuda terra, entrò nella camera una donna necessariamente giovane e bella che lo invitò a giacere con lei.

    Il frate non si turbò: raccolse dal fuoco alcuni carboni accesi, li distese in mezzo alla stanza e propose all’indesiderata ospite di stendersi lì sopra accanto a lui.
    I curiali che si accalcavano alle fessure della porta per godersi la scena non vollero credere ai loro occhi. Corsero ad avvertire dell’insolita vicenda il loro signore che volle entrare nella stanza.

    "Questi è veramente amico di Dio" commentò; e, rivolto al frate: "Alzati, Dio è con te e vera è la parola detta dalla tua bocca".

    In tempi recenti si è tentato di condurre questa leggenda nella storia scoprendo una lapide proprio nel castello di Bari: poco importa se i Fioretti di San Francesco, al Cap. XXIV, attribuiscono lo stesso episodio non a Federico II ma al Sultano d’Egitto!

    Sul versante della documentazione storica le Fonti francescane, solitamente affidabili e ben documentate, non recano alcuna memoria di incontri tra Federico II e Francesco d’Assisi. Esiste solo una generica tradizione che dimostra quanto sia sempre stato vivo il desiderio di vedere a confronto i due giganti del mondo medievale che avrebbero avuto tante cose da dirsi: ma che cosa si sarebbero detti?

    Lungi da noi la tentazione di creare nuove leggende fuori tempo e fuori luogo; ma visto che gli interessi ideali e le battaglie dei due personaggi avevano terreni se non proprio comuni almeno confinanti, è legittimo svolgere alcune considerazioni.

    Riportiamoci al 1220, l’anno possibile di un improbabile incontro.

    Francesco è appena rientrato da un viaggio in Oriente dove era stato accolto dal sultano d’Egitto Malik al-Kamil come un messaggero di pace per la liberazione dei luoghi santi.

    Federico II, rientrato in Italia dalla Germania, ha appena ricevuto a Roma la corona del Sacro Romano Impero e mette mano alla ricostruzione del Regno di Sicilia; ma su di lui pende l’obbligo di una nuova crociata, premessa per nuovi scontri etnici e religiosi che per indole e per educazione non può, non vuole provocare.

    In merito alla Crociata degli Scomunicati del 1229 conclusa senza spargimento di sangue, (cfr. precedente punto di questo sito) lo storico francese Julien Green nella sua accreditata biografia di San Francesco (Milano, Rizzoli, 1984) non esita ad ipotizzare che proprio "Malik al-Kamil restituì Gerusalemme a Federico II forse conquistato dalle idee del poverello".

    Francesco sta lottando per affermare le proprie idee di povertà, spirito evangelico, predicazione itinerante; ma la Regola da lui voluta è osteggiata dalla ricca Curia romana e scarsamente condivisa dallo stesso pontefice. Federico II è cosciente di avviarsi verso lo scontro frontale con il Papato che intende ridurre alle sole prerogative spirituali, peraltro ben tutelate dal potere imperiale.

    Francesco, 38enne, affaticato dalla penitenza e minato dai malanni, sta volando verso la santità coronata da lì a quattro anni dalle stimmate, il massimo segno divino.

    Accanto a lui prende potere frate Elia da Cortona che, fautore della separazione dei poteri temporale e spirituale, conta di fare da tramite fra due: morirà scomunicato.

    Federico II, 26enne, all’apice della potenza, inizia a concepire il sogno di un Impero laico universale, esteso dalla Sicilia alla Germania all’Oriente islamico. Sembra di vivere un momento magico, dove si progettano i grandi mutamenti della storia.

    Un incontro tra Federico II e San Francesco d’Assisi avrebbe potuto consentire di gettare le basi di un mondo più efficiente, più giusto, più santo; in ogni caso, un sincero resoconto dello storico colloquio ci consentirebbe oggi di conoscere meglio le vicende civili e religiose che sono alla base della società moderna.
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    00 09/08/2007 19:54
    LA SCUOLA POETICA SICILIANA


    I RIMATORI

    Nella prima metà del XIII secolo la forma linguistica dei trovatori e le nascenti letterature romanze raggiungono le loro prime compiute espressioni; in mezza Europa si afferma un idioma più moderno, adeguato alle esigenze di comunicazione delle classi "borghesi" emergenti, derivato dalla parlata corrente.

    In Italia invece il latino resiste come lingua d’arte e come lingua ufficiale, relegando i dialetti all’uso quotidiano del volgo.

    Federico ha l’intuizione: assieme ai letterati della sua Corte innalza l’antico dialetto apulo-siculo al rango di "siciliano illustre" con due precise finalità:

    *

    agevolare i rapporti culturali, commerciali ed umani;
    *

    porre le premesse per l’unificazione della Penisola che deve essere culturale prima che politica.


    In questa ottica, Federico è il promotore e il mecenate presso la sua Corte di una cerchia di poeti e lui stesso compone liriche di ottimo valore letterario.

    Si anima così un nuovo movimento, tra i più importanti della letteratura italiana delle origini, che anticipa la Scuola Toscana e il Dolce Stil Novo. Grazie all’aria di aristocrazia che spira nella Palermo imperiale, il "volgare" è elevato a dignità poetica di raffinata eleganza.

    In opposizione al gusto precedente, pervaso da sentimenti religiosi e penitenziali, i poeti di Corte — che Dante nel De Vulgari Eloquentia definisce "i Siciliani" — confermano i contenuti propri degli ideali cortesi: celebrano le gioie e i tormenti dell’amor profano, la bellezza della donna amata, il desiderio dei sensi…



    Rappresentazione medievale dell'amor cortese, Codex Palatinus Germanicus 848 (Codex Manesse).



    Numerose sono le testimonianze che provano l’influenza del trovatori di Provenza in Sicilia, terra permeata di influssi arabi e magno-greci. Costanza d’Aragona, prima moglie di Federico, porta nella corte di Palermo canzoni e trovatori provenzali; durante il suo soggiorno viene incoronato poeta un cantastorie che nel 1213 entra nell’Ordine francescano con il nome di frate Pacificus.

    La Scuola ha importanti testimoni. Ecco a tal proposito il giudizio di Dante: "E veramente gli illustri eroi Federico imperatore e Manfredi, degnamente nato da lui, tutta manifestando la nobiltà e la dirittura della loro anima, finché la fortuna lo permise, visser da uomini, sdegnando viver da bruti.

    Dalle poesie d'amore di Federico II dedicate a Bianca Lancia o ad altre nobil donne, si va ai versi nostalgici di re Enzo, alle rime di Pier delle Vigne in cui riecheggia forse ancora la poesia provenzale, dai moduli cortesi si discosta Rinaldo d'Aquino nel lamento di una donna per la partenza del marito che va in Terrasanta, fino alle espressioni più spontanee, più popolari di Giacomino Pugliese che esprime il pianto di un uomo per la morte della sua amata, alla naturalezza e quasi irriverenza del contrasto di Cielo d'Alcamo.

    Re Manfredi continuò anch'egli a coltivare la poesia presso la sua corte, ma morto lui si ebbe un allontanamento e poi un abbandono dello stile siciliano, per cui si può considerare la scuola poetica siciliana strettamente legata agli Hohestaufen.

    Gli originali delle liriche della scuola poetica siciliana sono andati dispersi, ed a noi sono giunte solo le versioni del Trecento, fatte dei trascrittori toscani, per cui non si può escludere che siano state leggermente modificate ed "italianizzate".

    E perciò coloro che erano nobili di cuore e forniti di doni divini cercarono di stare sempre vicini alla maestà di principi così grandi, di modo che tutto ciò che al tempo loro anime eccelse d’Italiani, sforzandosi, riuscivano a compiere, primieramente nella reggia di sì grandi sovrani veniva alla luce; e poiché regale era la Sicilia, avvenne che quanto i predecessori nostri produssero in volgare si chiamasse siciliano".

    Dal canto suo il Petrarca afferma che "...in breve tempo il modo di poetare rinato in Sicilia si espanse in tutta Italia e anche più lontano".
    [Modificato da silvanapat 10/08/2007 15:20]
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    00 09/08/2007 20:01
    FEDERICO POETA











    Ci sono pervenute solo poche composizioni liriche attribuibili con certezza all’imperatore. Esse costituiscono delle vere e proprie esercitazioni di stile, artefatte e convenzionali, ispirate al mondo della cavalleria e della corte, anche se non sono confrontabili, per intensità poetica, al Cantico delle Creature di San Francesco d’Assisi, di poco precedente.

    Legati alla lirica dei "trobadors", i suoi versi esaltano la bellezza femminile e lo struggimento d’amore con un linguaggio formale e aristocratico e sono dedicati a donne considerate importanti nella vita di Federico.

    L’amore sincero per Bianca Lancia ispira le liriche "Poi che ti piace Amor" e "De la mia disianza":


    Poi che ti piace Amor

    Poi che ti piace Amor
    faronde mia possanza
    Dat’agio lo meo core
    ch’eo degia trovare
    ch’io vegna a compimento
    in voi madonna, amare.



    De la mia disianza

    De la mia disianza
    c’ò penato ad avire,
    mi fa sbaldire
    poi ch’ì n’ò ragione,
    Ché m’à data fermanza
    com’io possa compire
    lu meu placire
    senza ogne cagione,
    a la stagione
    ch’io l’averò ’n possanza.
    Diviso m’à lo core
    e lo corpo à’n balia;
    tienmi e mi lia
    forte incatenato.
    La fiore d’ogne fiore
    prego per cortesia,
    che più non sia
    lo suo detto fallato,
    né disturbato
    per inizadore,
    né suo valore
    non sia menovato
    né rabassato
    per altro amadore.
    Sospiro e sto ’n racura;
    c’io son sì disioso
    e pauroso
    mi fece penare.
    Ma tanto m’asicura
    lo suo viso amoroso,
    e lo gioioso
    riso e lo sguardare
    e lo parlare
    di quella criatura,
    che per paura
    mi face penare
    e dimorare:
    tant’è fine e pura.



    Il poema d’amore "Oi lasso non pensai" è dedicato da Federico ad Anais, cugina dell’infelice sposa Jolanda di Brienne, della quale si era follemente invaghito al punto da definirla poeticamente "Fiore di Siria". I versi, quasi un lamento d’addio, mostrano un profondo sentimento accanto ad una buona qualità poetica.

    Oi lasso non pensai

    Oi lasso, non pensai si forte mi paresse
    lo dipartire da madonna mia
    da poi ch’io m’aloncai, ben paria ch’io morisse,
    membrando di sua dolze compagnia;
    e giammai tanta pena non durai
    se non quando a la nave adimorai,
    ed or mi credo morire ciertamente
    se da lei no ritorno prestamente.
    Canzonetta gioiosa, va a la fior di Soria,
    a quella c’à in pregione lo mio core:
    Dì a la più amorosa,
    ca per sua cortesia
    si rimembri de lo suo servidore,
    quelli che per suo amore va penando
    mentre non faccia tutto l suo comando;
    e pregalami per la sua bontade
    ch’ella mi degia tener lealtate.



    Ancora a Federico è attribuita la composizione "Dolze meo drudo": un delizioso lamento composto in occasione di una partenza per la guerra.

    Dolze mio drudo

    Dolze meo drudo e vatene,
    Meo Sere, a Deo t’accomanno.
    Che ti diparti da mene
    Et io tapina rimanno
    ........................
    Membrando che ten vai
    Lo cor mi mena gran guerra;
    Di ciò che più disiai
    Mi tolle lontana terra.
    Ora sen va lo mio amore
    C’io sovra gli altri l’amava;
    Biasmomi de la Toscana
    Che mi diparte lo core.


    Misura, providenzia e meritanza



    Misura, providenzia e meritanza

    Misura, providenzia e meritanza

    fanno esser l'uomo sagio e conoscente

    e ogni nobiltà bon sen[n]'avanza

    e ciascuna richeza fa prudente.

    Nè di richeze aver grande abundanza

    faria l'omo ch'è vile esser valente,

    ma della ordinata costumanza

    discende gentileza fra la gente.

    Omo ch'è posto in alto signoragio

    e in riccheze abunda, tosto scende,

    credendo fermo stare in signoria.

    Unde non salti troppo omo ch'è sagio,

    per grande alteze che ventura prende,

    ma tut[t]ora mantegna cortesia.


    [Modificato da silvanapat 10/08/2007 15:12]
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    00 09/08/2007 20:08
    LE LIRICHE DEL FIGLIO ENZO




    Re Enzo catturato dai bolognesi (miniatura del Codice Chigi)


    Enzo, figlio prediletto di Federico, è il più attivo e fervido tra i poeti della famiglia imperiale. L’amarezza per le tragiche vicissitudini che lo vedono protagonista trova libero sfogo nelle sue romanze, pervase di un’originale linfa poetica, priva di artifici e convenzioni.

    Le composizioni risalgono al periodo nel quale è prigioniero dei Bolognesi dopo la sconfitta di Fossalta del 1249, mentre incanta prima i suoi carcerieri poi la nobiltà cittadina con la letizia e la freschezza della sua gioventù.

    Ciò che resta delle sue romanze, gelosamente custodite in un quaderno menzionato nel suo testamento, sono solo pochi versi. In "Amor si fa sovente", probabilmente una delle prime liriche, esprime ancora un bagliore di gioia e vitalità; in "S’eo trovasse pietanza", da cui sono tratti i versi seguenti, troviamo solo la cupa disperazione di un uomo senza speranza:


    S'eo trovasse pietanza

    Ecco pena dogliosa
    che nel cor mi abbonda,
    e sparge per li membri
    sì che a ciascun ne vien soverchia parte;
    Non ho giorno di posa
    come nel mare l’onda.
    Core, che non ti smembri?
    Esci di pena e dal corpo ti parte.



    Amor mi fa sovente

    Amor mi fa sovente
    lo meo core pensare,
    dàmi pene e sospiri;
    e son forte temente,
    per lungo adimorare,
    ciò che por[r]ia aveniri.
    Non c'agia dubitanza
    de la dolze speranza
    che 'nver di me fallanza ne facesse,
    ma tenemi 'n dottanza
    la lunga adimoranza
    di ciò c'adivenire ne potesse.
    Però nd'agio paura
    e penso tuttavia
    a lo suo gran valore;
    se troppo è mia dimura,
    eo viver non por[r]ia;
    così mi stringe Amore
    ed àmi così priso,
    n tal guisa conquiso,
    che 'n altra parte non ò pensamento;
    e tuttora m'è aviso
    di veder lo bel viso,
    e tegnolomi in gran confortamento.
    Conforto e non ò bene:
    tant'è lo meo pensare,
    ch'io gioi non posso avire.
    Speranza mi mantene
    e fami confortare,
    chè spero tosto gire
    là 'v'è la più avenente,
    l'amorosa piacente,
    quella che m'ave e tene in sua bailìa.
    Non falserai' neiente
    per altra al meo vivente,
    ma tuttor la terrò per donna mia.
    Ancora ch'io dimore
    lungo tempo e non via
    la sua chiarita spera,
    [d]e lo su gran valore
    spesso mi [so]venia,
    ch'i' penso ogne manera
    che lei deggia piacere;
    e sono al suo volere
    istato e serò senza fallanza.
    Ben voi' fare a savere
    ch'amare e non vedere
    si mette fin amore in obbrianza.
    Va, canzonetta mia,
    e saluta Messere,
    dilli lo mal ch'i' aggio:
    quelli che m'à 'n bailìa
    sì distretto mi tene,
    ch'eo viver non por[r]aggio
    salutami Toscana,
    quella ched è sovrana,
    in cui regna tutta cortesia;
    e vanne in Pugla piana,
    la magna Capitana,
    là dov'è lo mio core nott'e dia.


    [Modificato da silvanapat 09/08/2007 20:10]
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    00 10/08/2007 15:32
    FEDERICO II






    "Dopo giorni di lotte formidabili,
    verrà l’imperatore Federico a ripristinare
    il diritto. Egli restituirà quanto
    dai preti fu sottratto alle vedove,
    ai pupilli
    ed agli orfani.
    E dei potenti lascerà
    sussistere soltanto
    la settima parte.
    Con una schiera d’uomini senz’armi
    egli si recherà a Gerusalemme,
    terra che Dio
    gli ha destinata; e qui
    sospenderà il suo scudo a un albero
    ormai da lungo tempo disseccato,
    il quale al tocco del bronzo
    tornerà a rinverdire"

    "Furono questi i felici
    presagi che donarono
    un senso alla mia vita"


    IMPERATOR FRIEDERICUS SECUNDUS ROMANORUM
    CAESAR SEMPER AUGUSTUS ITALICUS SICULUS
    HIEROSOLYMITANUS ARELATENIS FELIX
    VICTOR AC TRIUMPHATO




    p.s. trovato in rete.
    un omaggio a FEDERICO II

    SIMONA GUSTATELO!!!!!!!!
    [Modificato da silvanapat 10/08/2007 17:33]
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    00 10/08/2007 17:39
    curiosita su Federico II


    LA PIETRA DELL'IMPERATORE

    La leggenda è legata ad un contenzioso "sindacale" che vide contrapposti i braccianti agricoli della Conca d'oro e i loro datori di lavoro.

    Secondo tradizione, i contadini dovevano lavorare nei campi dall'alba al tramonto, obbligo che in Sicilia è difficile da assolvere d'estate quando il caldo e l'afa rendono il lavoro un vero inferno.Il

    Così i braccianti si rivolsero all'Imperatore chiedendo che intervenisse per rendere più umane le loro condizioni di lavoro. Federico II non rimase insensibile alla richiesta dei contadini e, come narra la leggenda, dispose che ai piedi del Monte Pellegrino venisse collocato un grosso masso a forma di cono alto circa quattro metri e ordinò che, quando l'ombra della montagna avesse lambito la base del macigno (cosa che si verificava verso le quattro del pomeriggio), i braccianti smettessero di lavorare.


    Il popolo chiamò questo grande sasso a forma di cono Pietra dell'Imperatore. Di questa pietra, che rimase al suo posto per molti secoli, si hanno numerose testimonianze fino a quando nel XIX secolo non fu fatta saltare per ricavarne materiale da costruzione.

    Queste storie o meglio leggende, perché non credo ci siano evidenze storiche, ti fanno capire tuttavia quanto illuminato debba essere stato il governo di Federico II in un periodo in cui il resto d'Europa era immerso nel "rigido" medioevo.
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    Re:
    silvanapat, 09/08/2007 18.41:


    Francesco è appena rientrato da un viaggio in Oriente dove era stato accolto dal sultano d’Egitto Malik al-Kamil come un messaggero di pace per la liberazione dei luoghi santi.

    Federico II, rientrato in Italia dalla Germania, ha appena ricevuto a Roma la corona del Sacro Romano Impero e mette mano alla ricostruzione del Regno di Sicilia; ma su di lui pende l’obbligo di una nuova crociata, premessa per nuovi scontri etnici e religiosi che per indole e per educazione non può, non vuole provocare.

    In merito alla Crociata degli Scomunicati del 1229 conclusa senza spargimento di sangue, (cfr. precedente punto di questo sito) lo storico francese Julien Green nella sua accreditata biografia di San Francesco (Milano, Rizzoli, 1984) non esita ad ipotizzare che proprio "Malik al-Kamil restituì Gerusalemme a Federico II forse conquistato dalle idee del poverello".



    Malik al-Kamil (nipote del grande Saladino) è il sultano che per timore di un'invasione delle terribili truppe di Ghengis Kahn, chiede l'aiuto di Federico. Il tutto è testimoniato dalle lettere che si inviavano i due sovrani e dagli ambasciatori dei due regni (ora non ricordo i nomi). Temo che lo storico francese abbia preso una cantonata. Silvana se vuoi posso inserire questa parte della storia, è quel capitolo che ho letto ieri pomeriggio nel libro sulle crociate: il più avvincente di tutti, ovviamente. Qualcosa ho già scritto a proposito della crociata, ma era un sunto. In realtà la questione tra i due sovrani era molto complessa.
    Per quanto riguarda l'episodio della prostituta che cerca di sedurre Francesco, è narrata anche in una canzone di Branduardi. Ti riporto il testo, è una delle canzoni che preferisco:

    Il sultano di Babilonia e la prostituta


    Frate Francesco partì una volta per oltremare
    Fino alle terre di Babilonia a predicare,
    coi suoi compagni sulla via dei Saracini
    furono presi e bastonati, i poverini!
    Frate Francesco parlò
    E così bene predicò
    Che il Gran Sultano ascoltò
    E molto lo ammirò,
    lo liberò dalle catene…
    così Francesco partì per Babilonia a predicare.
    Frate Francesco si fermò per riposare
    Ed una donna gli si volle avvicinare,
    bello il suo volto ma velenoso il suo cuore,
    con il suo corpo lo invitava a peccare.
    Frate Francesco parlò:
    “Con te io peccherò”
    Nel fuoco si distese,
    le braccia a lei protese.
    Lei si pentì, si convertì…
    così Francesco partì per Babilonia a predicare.

    La potete ascoltare qui: Il Sultano di Babilonia e la prostituta
    [Modificato da Bag End 14/08/2007 12:47]
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    Ancora sulla Scuola poetica siciliana



    La scuola poetica siciliana è la prima forma di letteratura laica in Italia. Suo promotore fu l'Imperatore Federico II di Svevia. Questa scuola vide il suo apice tra il 1230 e il 1250. Nasce come una poesia di corte, infatti autori dei più noti sonetti sono lo stesso Federico II e membri della sua corte quali il suo logoteta Pier delle Vigne, Re Enzo, figlio di Federico, Rinaldo d'Aquino, Jacopo da Lentini funzionario della curia imperiale, Stefano protonotaro da Messina, ecc. La lingua usata era il siciliano o meglio il siculo-appulo.

    Tale esercizio letterario fu voluto dallo Svevo per amore verso la poesia o, per intento più alto, per unificare linguisticamente il suo regno nel sud dell'Italia. Viene quindi detta scuola poetica siciliana e "siciliani" sono detti i rimatori che aderiscono a questa corrente anche se non sempre si trattava di poeti meridionali, vedasi per esempio Percivalle Doria.

    La scuola sarebbe la risposta italiana alla poesia provenzale, ma se pure da essa ha preso le mosse non si può negarle una sua originalità. Nella poesia siciliana notiamo delle immagini e delle metafore tipiche anche della poesia araba che a Palermo aveva ancora forti radici: se ne possono notare gli influssi anche in documenti emessi dalla curia o in epistole private scritte da alti funzionari.





    Rinaldo D'Acquino

    Appartenente alla nobile famiglia dei d’Aquino, individuato con Rinaldo fratello di San Tommaso d’Aquino, viene nominato nei documenti con il titolo di «messere», riservato all'epoca alle persone di prestigio.

    È uno dei primi esponenti della scuola siciliana. Dante si riferisce a questo poeta come il «meridionale del continente», per la poesia proposta qui di seguito.

    Come poeta della scuola poetica siciliana Rinaldo ha avuto notevole successo per un altro suo brano, il lamento di una donna afflitta dalla partenza del proprio uomo alla crociata del 1227-28, quella che vide partecipe l'imperatore.



    Per fin'amore vao sì allegramente

    ch'io non aggio veduto

    omo che 'n gio' mi poss'apareare;

    e paremi che falli malamente

    omo c'ha riceputo

    ben da signore e poi lo vol celare.

    Ma eo no 'l celaraio,

    com'altamente Amor m'ha meritato,

    che m'ha dato a servire

    a la fiore di tutta caunoscenza

    e di valenza,

    ed ha bellezze più ch' eo non so dire:

    Amor m'ha sormontato

    lo core in mante guise e gran gio' n'aggio.



    Aggio gio' più di null' om certamente,

    c'Amor m'ha sì ariccuto,

    da che li piace ch' eo la deggia amare:

    poi che de le donne [ella] è la più gente,

    sì alto dono aio avuto,

    d'altro amadore più deggio in gioi stare;

    ca null' altro coraggio

    non poria aver gioi ver' cor 'namorato.

    Dunqua, senza fallire,

    a la mia gioi null'altra gioi sì 'ntenza,

    ne[d] ho credenza

    c'altr'amador potesse unque avenire,

    per suo servire, a grato

    de lo suo fin' amore al meo paraggio



    Para non averia, sì se' valente,

    ché lu mond' ha cresciuto

    lo presio tuo sì lo sape avanzare.

    Presio d'amore non vale neente,

    poi donn' ha ritenuto

    in servidore, ch'altro vol pigliare:

    ché l'amoroso usaggio

    non vol che sia per donna meritato

    più d'uno a ritenere;

    ched altrui ingannare è gran fallenza

    in mia parvenza.

    Chi fa del suo servire dipartire

    quello ch'assai c'è stato

    senza malfare, mal fa signoraggio.



    Signoria vol ch' eo serva lealmente,

    che mi sia ben renduto

    bon merito, ch'eo non saccia blasmare;

    ed eo mi laudo che più altamente

    ca eo non ho servuto

    Amor m'ha coninzato a meritare:

    e so ben che seraggio

    quando serò d'Amor così 'nalzato.

    Però vorria complere,

    con' de' fare chi sì bene inconenza;

    né[d] ho credenza

    ch'unque avenisse ma' per meo volere

    si d'Amor non so' aitato

    in più d'aquisto ch'e o non serviraggio.


    [continua...]
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    00 10/08/2007 18:39
    Pier Delle Vigne: un mito nel mito




    Pier delle Vigne è un mito che si inserisce nel mito più grande del suo Signore: Federico II.

    Di origini meridionali e di famiglia più che modesta — era nato a Capua attorno al 1190 — si trasferì ancor giovanissimo a Bologna, la sapientissima città, per frequentare le scuola di diritto. Soprattutto allora per un ragazzo povero, privo di amicizie e raccomandazioni, doveva essere difficile vivere in un ambiente culturale evoluto, dominato dai nobili e dalla Chiesa. Il suo sogno era quello di raggiungere un incarico universitario, di diventare un insegnante dotto e rispettato, di condurre tutto sommato un’esistenza tranquilla. Ma il destino gli riservava un diverso avvenire.

    Terminati gli studi, ebbe la ventura di conoscere e di farsi apprezzare da Federico II, al punto che fu chiamato a Corte e gli fu proposto un incarico nella cancelleria. Da quel momento la carriera del giovane capuano fu tutta in ascesa: all’Imperatore piaceva il suo dotto eloquio, la capacità di scrivere coniugando le situazioni con le conoscenze giuridiche, di interpretare con facilità le problematiche più complicate siano state esse religiose, politiche, economiche, sociali... In breve tempo si affermò in tutti gli ambienti che frequentava: divenne insigne poeta, diplomatico, ministro di Corte; utilizzato nelle missioni diplomatiche più delicate, raggiunse la carica di Logoteta del Regno di Sicilia, in pratica un sorta di viceré durante le ripetute assenze di Federico.

    Nel 1247, ormai circa 57enne, il desiderio dello statista illustre e dell’insigne letterato era quello di concludere tranquillamente la carriera quando una notte di febbraio, mentre si trovava a Cremona — allora in pratica la capitale italiana dell’Impero — fu arrestato dalla milizie imperiali e rinchiuso nel castello di Borgo san Donnino (l’odierna Fidenza, in provincia di Parma) come il colpevole di un gravissimo delitto.

    Oggi conosciamo con buona approssimazione come Pier delle Vigne morì; meno bene perché fu brutalmente perseguitato e condannato. Sono oscure le fonti, reticenti gli scritti di Federico II, lo stesso interessato, ottimo scrittore e polemista, fu messo in condizioni di non poter parlare, di esercitare la sua legittima difesa.


    Dopo una breve permanenza nel castello di Borgo San Donnino, Pier delle Vigne fu trasferito nella più protetta Rocca di San Miniato. Qui fu tenuto per alcuni giorni nella più rigida segregazione, finché si presentarono a lui tre sinistri aguzzini. Senza falsi preamboli, mentre due di loro lo tenevano fermo, il terzo gli ficcò negli occhi un ago ardente che lo accecò irreparabilmente: forse un modo per farlo tacere, per impedirgli di pensare, di difendersi, di essere un uomo… Una pratica diffusa nel Medio Evo ed in particolare presso la Corte sveva, un terrificante rituale che univa alla sanzione un macabro simbolismo.

    Il supplizio non era forse terminato: anzi, è lecito ritenere che le milizie imperiali si preparavano ad esporre al pubblico ludibrio il vecchio Logoteta, quando fu lui a porre fine ai tormenti. Mentre veniva trasferito dalla Toscana, a cavallo, verso una ignota destinazione, riuscì a raccogliere le residue energie e, superata con uno slancio la testa dell’animale, si buttò a capofitto in avanti. Un salto che in condizioni normali non avrebbe creato alcun danno, ma che la sorte benigna volle rendere fatale: egli infatti batté con il capo su una rupe e morì all’istante.

    Fin dal tempo degli avvenimenti, le versioni della vicenda furono moltissime, fra loro assai diversificate: e non potrebbe essere diversamente visti gli interessi religiosi, politici ed economici che ruotavano attorno ai protagonisti stretti fra Papato, Impero, liberi Comuni, a loro volta tormentati dal gioco di correnti che farebbero invidia alla più avanzate moderne partitocrazie.

    I cronisti del tempo

    Evidentemente gli scoop colorati di rosa esistevano nel XIII secolo non meno di oggi. I cronisti del tempo hanno sostenuto che tra Federico e Pier delle Vigne ci fu una questione di donne. Per alcuni il ministro si invaghì della preferita dell’Imperatore, fino ad avanzare delle audaci quanto imperdonabili "avances"; per altri fu l’Imperatore a tentare di sedurre la moglie del ministro, uomo notoriamente gelosissimo come tutti gli uomini attempati a fianco di una compagna giovane e bella. Non mancarono i particolari salaci secondo i quali Pier delle Vigne, dopo aver scoperto Federico fra le coltri della propria moglie, fu costretto ad ordire una congiura per lavare l’onta nel sangue.

    Dante

    Dante nella sua Commedia non poteva trascurare una vicenda oscura ma nota in tutti gli ambienti, ricca di valenze politiche ed umane; e ne dà una versione peraltro condivisa da vari commentatori del tempo. Pier delle Vigne sarebbe stato vittima dell’invidia dei contemporanei, sommerso dagli inevitabili odi che si erano cumulati a carico di un uomo potente, braccio destro dell’Imperatore, causa o comunque esecutore di provvedimenti poco graditi da personaggi forti, capaci di coagulare il dissenso e di promuovere sordide vendette.

    Il Sommo Poeta commenta la morte del Logoteta imperiale facendogli proferire queste drammatiche parole::

    "L’animo mio, per disdegnoso gusto,

    credendo con morir fuggir disdegno,

    ingiusto fece me contra me giusto"


    Matteo Paris e Salimbene de Adam


    Secondo il monaco inglese Matteo Paris, autore della "Chronica majora" — un’opera colossale che riporta informazioni da utilizzare sempre con estrema cautela, troppo spesso citata dagli storici in mancanza di altre fonti dirette e più documentate — Pier delle Vigne appoggiò il fallito attentato a Federico II del 1249, voluto dai Guelfi ove non addirittura da Innocenzo IV. Il suo ruolo sarebbe stato fondamentale perché, su ordine del Papa, avrebbe convinto il medico di Corte ad avvelenare l’Imperatore somministrandogli una pozione avvelenata.

    La tesi sembra condivisa da Salimbene de Adam da Parma che nella sua "Chronica" si ricollega a presunti colloqui segreti intercorsi fra il Pontefice ed il ministro durante una visita di questi a Lione, sede al tempo della Curia. A mettere nei pasticci Pier delle Vigne sarebbero stati i suoi compagni che lo accusarono "…di aver avuto familiare colloquio con il Papa senza che loro fossero presenti. […] E per questo — commenta il cronista — lo fece imprigionare e lo fece morire di mala morte ". Giova ricordare che Federico fu capace di vendette altrettanto gravi per sospetti ancor meno evidenti e documentati.


    Riassumendo le varie tesi fin qui descritte, pare oggi evidente che

    - L’infedeltà o quanto meno la gelosia non pare un movente adeguato alla situazione; e ciò anche tenendo conto dell’ambiente della Corte sveva che accoglieva le tradizioni morali islamiche e siciliane del Medio Evo, poco condiscendenti verso il peccato di adulterio.

    - Poco realistica anche se interessante, umanamente più giustificabile, pare l’ipotesi della congiura di palazzo. Ad essa un uomo come Pier delle Vigne avrebbe potuto facilmente opporsi, prima che potesse esplodere tutta la furia distruttiva dell’Imperatore, peraltro sensibile alle delazioni, consapevole che nel dubbio era sempre opportuno comminare la pena maggiore.

    - Non è pensabile che Pier delle Vigne — sempre accorto, restio ad assumere atteggiamenti non più che ponderati — si sia coinvolto una congiura contro il suo Signore, anche se promossa ad altissimi livelli, voluta direttamente o indirettamente dal Pontefice. Come se ciò non bastasse, è oggi definitivamente provato che il tentato omicidio operato con la complicità del medico di Corte avvenne in tempi tali da far escludere una relazione diretta con la caduta in disgrazia del potente ministro.

    E allora?

    Gli studiosi più recenti sono propensi a credere che Federico abbia scoperto nel comportamento del suo più stretto collaboratore gli estremi per accusarlo di corruzione:

    un reato basso, vile, che certo non vorremmo ipotizzare con facilità a carico di un letterato, di un poeta, di una persona che fino a quel momento pareva animato da sentimenti di massima spiritualità oltre che di assoluta correttezza;

    un reato che toglie molto fascino alla vicenda, riconducendola ad un episodio banale, di volgarissimo basso Impero.

    Eppure, questa tesi è avvalorata da più di una prova convincente, condivisa dagli storici più recenti.

    In una lettera personale al genero Riccardo di Caserta — un suo collaboratore veramente fidato, l’uomo che lo aveva salvato dall’attentato della Pasqua 1246 — Federico definisce il ministro "secondo Simone" evidentemente riferendosi a Simon Mago, l’esseno che aveva proposto a Pietro di barattare le cose dello spirito con le ricchezze; e parla di lui come dell’uomo che "…o avesse una borsa di denaro o la riempisse, aveva trasformato lo scettro della giustizia in serpente".

    Dopo anni di vita pubblica Pier delle Vigne, noto per aver condotto una vita dispendiosa, poteva godere di enormi ricchezze che gli avevano procurato l’invidia dei colleghi ed ora sollecitavano i dubbi dell’Imperatore.

    Ma non basta: lo Shaller può citare una fonte secondo cui "Sembra che Pier delle Vigne abbia non solo sottratto grandi somme, ma anche abusato della propria posizione per perseguitare presunti nemici dell’Imperatore e incamerarsi i loro beni, la qual cosa fece vacillare dalle fondamenta lo Stato svevo nel quale la giustizia era venerata quasi religiosamente": un delitto enorme.

    Possiamo ritenere che, non appena ottenute le prove della corruzione, Federico, offeso più che irritato, si sia imposto di non parlare; e la stessa cosa abbia voluto imporre al ministro, semplicemente facendo operare sul suo corpo le orrende mutilazioni di cui si è parlato. Del tradimento non doveva restare nemmeno il ricordo!

    Evidentemente ci troviamo di fronte ad una Tangentopoli ante litteram, ad un uomo nato povero che non seppe resistere al fascino della ricchezza che non riuscì a trovare una propria giusta dimensione politica, morale, economica. La colpa di Pier delle Vigne, che dimostrava di comportarsi alla stregua di qualunque funzionario poco scrupoloso, era tanto più grave in quanto era stato lui a dettare le leggi, a sollecitare il loro rispetto, a stabilire le pene per i trasgressori.

    Alla fine di questa raccapricciante storia, resta nella nostra mente l’immagine di due occhi spenti che fissano l’infinito, di un essere distrutto che trova nel suicidio la fuga dalla realtà. Forse il mito del personaggio può risultare ridimensionato dalla colpa: avremmo certo preferito ricordarlo vittima dell’amore o anche semplicemente di una congiura.

    Ed ecco una sua poesia:


    Amando con fin core e co speranza


    Amando con fin core e co speranza,

    di grande gioi fidanza

    donami Amor piu ch'eo non meritai,

    che mi 'nalzao coralmente d'amanza

    da la cui rimembranza

    lo meo coragio non diparto mai;

    e non poria partire

    per tutto il meo volire,

    sì m'è sua figura al core impressa,

    ancor mi sia partente

    da lei corporalmente,

    la morte amara, crudele ed ingressa.



    La morte m'este amara, che l'amore

    mutomi in amarore;

    crudele, chè punio senza penzare

    la sublimata stella de l'albore

    senza colpa a tuttore

    per cui servire mi credea salvare.

    Ingressa m'è la morte

    per afretosa sorte,

    non aspettando fine naturale

    di quella in cui natura

    mise tutta misura

    for che termin di morte corporale.



    Per tal termino mi compiango e doglio,

    perdo gioia e mi sfoglio

    quando sua conteza mi rimembra

    di quella ch'io amare e servir soglio.

    Di ciò viver non voglio

    ma dipartire l'alma da le membra;

    e faria ciò ch'eo dico,

    se non c'a lo nemico

    che m'à tolta madonna placeria:

    ciò è la morte fera,

    che non guarda cui fera,

    per lei podire aucire eo moriria.



    No la posso ucire, nè vengiamento

    prendere al meo talento,

    più che darmi conforto e bona voglia;

    ancora non mi sia a piacimento

    alcun confortamento,

    tanto conforto ch'io vivo in doglia.

    Dunqua vivendo eo

    vegio del danno meo

    servendo Amor cui la morte fa guerra,

    e a lui serviragio

    mentre ch'eo viveragio;

    in suo dimin rimembranza mi sera.



    Rimembranza mi sera in suo dimino,

    und'e ver lui mi 'nchino,

    merzè chiamando Amore che mi vaglia.

    Vagliami Amore per cui non rifino,

    ma senza spene afino,

    c'a lui servendo gioi m'è la travaglia;

    donimi alcuna spene;

    ma di cui mi sovene

    non voi' che men per morte mi sovegna,

    di quella in cui for mise

    tutte conteze assise,

    senza la quale Amore in me non regna.


    [continua...]
    [Modificato da Bag End 10/08/2007 18:41]
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    00 10/08/2007 18:55
    Cielo D'Alcamo


    Cielo d'Alcamo fu un poeta nato nella prima
    metà del XIII secolo, uno dei più significativi
    rappresentanti della poesia popolare giullaresca.

    Egli scrisse un contrasto in dialetto meridionale
    dal titolo Rosa fresca aulentissima, che è un vero
    esempio di mimo giullaresco, destinato alla
    rappresentazione scenica.

    Non si sa chi fosse esattamente questo poeta. Anche
    il nome è incerto, per alcuni fu Ciullo (diminutivo
    di Vincenzullo o richiamo volgare e grottesco tipico
    nei nomi giullareschi), per altri Cheli (diminutivo
    di Michele, nome molto diffuso in Sicilia), da cui
    sarebbe poi derivato Celi e in seguito, in Toscana,
    Cielo. Incerto anche il secondo nome, d'Alcamo (da
    Alcamo cittadina Siciliana), Dal Camo, Dalcamo.

    Dall'analisi del testo si può dedurre in base agli
    elementi linguistici, che l'autore fosse siciliano
    e non sprovvisto di cultura.

    La data invece della composizione, cade tra il 1231
    e il 1250, nel periodo che va dalla promulgazione
    delle Costituzioni Melfitane e l'anno di morte di
    Federico II. Questa data si ricava dai riferimenti
    fatti nei versi 21-25 di Rosa fresca aulentissima:




    I

    «Rosa fresca aulentisima ch'apari inver' la state

    le donne ti disiano, pulzell' e maritate;

    tràgemi d'este focora, se teste a bolontate;

    per te non ajo abento notte e dia,

    penzando pur di voi, madonna mia.»



    II

    «Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare.

    Lo mar potresti arompere, a venti asemenare,

    l'abere d'esto secolo tut[t]o quanto asembrare

    avere me non pòteri a esto monno;

    avanti li cavelli m'aritonno.»



    III

    «Se li cavelli arton[n]iti, avanti foss'io morto,

    ca'n isi [sì] mi pèrdera lo solacco e 'l diporto .

    Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l'orto,

    bono conforto donimi tut[t]ore:

    poniamo che s'ajunga il nostro amore.»



    IV

    «Ke 'l nostro amore ajùngasi, non boglio m'atalenti:

    se ci ti trova paremo cogli altri miei parenti,

    guarda non t'argolgano questi forti cor[r]enti.

    Como ti seppe bona la venuta,

    consiglio che ti guardi a la partuta.»



    V

    «Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare?

    una difensa mèt[t]oci di dumili' agostari:

    non mi tocara pàdreto er quanto avere ha 'n Bari.

    Viva lo 'mperadore, graz[i'] a Deo!

    Intendi, bella, quel che ti dico eo? (1)




    VI

    «Tu me no lasci vivere né sera né maitino.

    Donna mi so' di pèrperi, d'auro massamotino.

    Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino,

    e per ajunta quant'ha lo soldano,

    tocare me non pòteri a la mano.»



    VII

    «Molte sono le femine c'hanno dura la testa,

    e l'orno con parabole l'adimina e amonesta:

    tanto intorno procàzzala fin ch'ell' ha in sua podesta.

    femina d'orno non si può tenere:

    guàrdati, bella, pur de ripentere.»





    VIII

    «K'eo ne [pur ri]pentésseme? davanti foss'io aucisa

    ca nulla bona femina per me fosse ripresa!

    [A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa.

    Aquìstati riposa, canzoneri:

    le tue parole a me non piacion gueri.»



    IX

    «Quante sono le schiantora che m'ha' mise a lo core,

    e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore!

    Femina d'esto secolo tanto non amai ancore

    quant'amo teve, rosa invidiata:

    ben credo che mi fosti distinata.»



    X

    «Se distinata fosseti, caderia de l'altezze,

    ché male messe fòrano in teve mie bellezze.

    Se tut[t]o adivenìssemi, tagliàrami le trezze;

    e consore m'arenno a una magione,

    avanti che m'artochi 'n la persone.»



    XI

    «Se tu consore arènneti donna col viso cleri,

    a lo mostero vènoci e rènnoti confleri:

    per tanta prova vencerti fàralo volonteri.

    Conteco stao la sera e lo maitino:

    besogn'è ch'io ti tenga al mio dimino.»



    XII

    «Boimé tampina misera, com'ao reo distinato!

    Geso Cristo l'altissimo del tut[t]o m'è airato:

    concepìstimi a abàttare in omo blestiemato.

    Cerca la terra ch'este gran[n]e assai,

    chiù bella donna di me troverai.»



    XII

    «Cercat'ajo Calabr['i]a, Toscana e Lombardia,

    Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,

    Lamagna e Babilonia [e] tut[t]a Barberia:

    donna non [ci] trovai tanto cortese,

    per che sovrana di meve te prese.»



    XIV

    «Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[ c]ioti meo pregheri

    che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri,

    Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri,

    e sposami davanti da la jente;

    e poi farò le tuo comannamente.»



    XV

    «Di ciò che dici, vitama, neiente non ti bale,

    ca de le tuo parabole fatto n'ho ponti e scale.

    Penne penzasti met[t]ere, sonti cadute l'aIe;

    e dato t'ajo la bolta sot[t]ana.

    Dunque, se po[t]i, téniti villana.»



    XVI

    «En paura non met[t]ermi di nullo manganiello:

    istòmi 'n esta groria d'esto forte castiello;

    prezzo le tue parabole meno che d'un zitello.

    Se tu no levi e va'tine di quaci,

    se tu ci fosse morto, ben mi chiaci.»



    XVII

    «Dunque vor[r]esti, vitama, ca per te fosse strutto?

    Se morto essere déboci od intagliato tut[t]o,

    di quaci non mi mòsera se non ai de lo frutto

    lo quale stao ne lo tuo jardino:

    disiolo la sera e lo matino.»



    XVIII

    «Di quel frutto non àb[b ]ero conti né cabalieri;

    molto lo dis'ia[ro]no marchesi e justizieri,

    avere no'nde pòttero: gir' onde molto feri.

    Intendi bene ciò che bol[io] dire?

    men'este di mill'onze lo tuo abere.»



    XIX

    «Molti so' li garofani, ma non che salma 'nd'ài:

    bella, non dispregiàremi s'avanti non m'assai.

    Se vento è in proda e gìrasi e giungeti a le prai,

    arimembrare t'ao [e]ste parole,

    ca de[n]tr'a 'sta animella assai mi dole.»



    XX

    «Macara se dolèeti che cadesse angosciato:

    la gente ci cor[r]esoro da traverso e da llato;

    tut[t]'a meve dicessono: ' Acor[r] esto malnato'!

    Non ti degnara porgere la mano

    per quanto avere ha 'l papa e lo soldano. »



    XXI

    «Deo lo volesse, vìtama, te fosse morto in casa!

    L'arma n'anderia cònsola, ca dì e notte pantasa.

    La jente ti chiamàrano: 'Oi perjura malvasa,

    c'ha' morto l'omo in càsata, traìta!'

    Sanz'on[n]i colpo lèvimi la vita.»



    XXII

    «Se tu no levi e va'tine co la maladizione,

    li frati miei ti trovano dentro chissa magione.

    [...] be.llo mi sof[f]ero pérdici la persone

    ca meve se' venuto a sormontare;

    parente néd amico non t'ha aitare.»



    XXIII

    «A meve non aìtano amici né parenti:

    istrani' mi so', càrama, enfra esta bona jente.

    Or fa un anno, vìtama, che 'ntrata mi se' ['n] mente.

    Di canno ti vististi lo maiuto,

    bella, da quello jorno so' feruto.»



    XXIV

    «Di tanno 'namoràstiti, [tu] Iuda lo traìto,

    como se fosse porpore, iscarlato o sciamito?

    S'a le Va[n]gele jùrimi che mi si' a marito,

    avere me non pòter'a esto monno:

    avanti in mare [j]ìt[t]omi al perfonno.»



    XXV

    «Se tu nel mare gìt[t]iti, donna cortese e fina,

    dereto mi ti mìsera per tut[t]a la marina,

    [e da] poi c'anegàseti, trobàrati a la rena

    solo per questa cosa adimpretare:

    conteco m'ajo agiungere a pecare.»



    XXVI

    Segnomi in Patre e 'n Filio ed i[n] santo Mat[t]eo:

    so ca non ce' tu retico [o] figlio di giudeo,

    e cotale parabole non udi' dire anch'eo.

    Morta si [è] la femina a lo 'ntutto,

    pèrdeci lo saboro e lo disdotto.»



    XXVII

    «Bene lo saccio, càrama: altro non pozzo fare.

    Se quisso non arcòmplimi, làssone lo cantare.

    Fallo, mia donna, plàzzati, ché bene lo puoi fare.

    Ancora tu no m'ami, molto t'amo,

    sì m'hai preso come lo pesce a l'amo.»



    XXVIII

    «Sazzo che m'ami, [e] àmoti di core paladino.

    Lèvati suso e vatene, tornaci a lo matino.

    Se ciò che dico fàcemi, di bon cor t'amo e fino.

    Quisso t'[ad]imprometto sanza faglia:

    te' la mia fede che m'hai in tua baglia.»



    XXIX

    «Per zo che dici, càrama, neiente non mi movo.

    manti pren[n]i e scànnami: tolli esto cortel novo

    Esto fatto far pòtesi inanti scalfi un uovo.

    Arcompli mi' talento, [a]mica bella,

    ché l'arma co lo core mi si 'nfella.»



    XXX

    «Ben sazzo, l'arma dòleti, com'omo ch'ave arsura.

    Esto fatto non pòtesi per null' altra misura:

    se non ha' le Vangele, che mo ti dico 'jura',

    avere me non puoi in tua podesta;

    inanti pren[n]i e tagliami la testa.»



    XXXI

    «Le Vangele, càrama? ch'io le porto in seno:

    a lo mostero présile (non ci era lo patrino).

    Sovr' esto libro jùroti mai non ti vegno meno.

    Arcompli mi' talento in caritate,

    ché l'arma me ne sta in sut[t]ilitate.»



    XXXII

    «Meo sire, poi juràstimi, eo tut[t]a quanta incenno.

    Sono a la tua presenza, da voi non mi difenno.

    S'eo minespreso àjoti, merzé, a voi m'arenno.

    A lo letto ne gimo a la bon' ora,

    ché chissa cosa n'è data in ventura.»


    Uno dei riferimenti a cui si allude riguarda
    la parola "agostari" che era una multa
    altissima perché gli agostari, o
    augustali erano delle monete d'oro coniate
    nel 1231 che valevano un fiorino e un quarto.

    Secondo una legge contenuta nelle Costituzioni
    Melfitane, emanate da Federico II nel 1231 si
    poteva fermare l'aggressore pronunciando il nome
    dell'imperatore e indicando la multa che
    l'aggressore avrebbe dovuto pagare se avesse
    fatto uso della violenza. Questo accenno è molto
    importante ai fini della datazione del contrasto.

    Il contenuto del componimento è quello tipico
    nella rimeria giullaresca: si tratta di un dialogo
    tra una ragazza del popolo e un giullare sfacciato
    che le offre con enfasi il suo amore, a tratti con
    parole svenevoli, a tratti con parole da trivio.
    La ragazza dapprima rifiuta motteggiando e infine
    finisce con il capitolare.

    Si tratta evidentemente di un mimo giullaresco,
    secondo alcuni anche recitato e accompagnato dalla
    musica, dove la rappresentazione dei caratteri è
    arguta e pur essendo comica non è caricaturale.

    Il contrasto è nell'insieme la riproduzione d'uno
    schema frequente nella letteratura popolare fatta da
    uno scrittore non incolto e dotato di notevoli
    qualità artistiche.

    Nella V strofa (evidenziata in rosso) l'autore si
    riferisce con ironia ad una legge emanata da
    Federico II nell'ambito di alcune norme dettate
    in favore delle donne. In particolare la disposizione
    stabiliva che una donna molestata non fosse obbligata
    ad un matrimonio riparatore (che in pratica, poteva
    ritenersi una condanna anche per la donna oltraggiata),
    ma doveva essere punito solo il molestatore col pagamento
    di un'ammenda. Lodevole iniziativa quella dell'Imperatore,
    dettata certamente da buone intenzioni e da una mentalità
    aperta e moderna, ma, di fatto, si rivelò una sorta
    di immunità per i cattivi soggetti, specie quelli
    abbienti. Essi potevano permettersi di pagare senza
    che la cosa pesasse sulle loro finanze, o, meglio,
    grazie alla loro influenza e potere, riuscivano a
    non farsi comminare neppure la multa.
    [Modificato da Bag End 10/08/2007 19:32]
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    00 10/08/2007 19:28
    Non so perchè il post precedente è venuto così brutto [SM=g10342]. Scusate, ma non riesco a modificarlo meglio di così [SM=g10699]. I neretti e le sottolineature non sono le mie e non si tolgono [SM=g8286].

    Praticamente ho smerdato tutta la pagina [SM=g8618]
    [Modificato da Bag End 10/08/2007 19:39]
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    00 10/08/2007 20:22
    Jacopo da Lentini




    Giacomo da Lentini (conosciuto anche come Jacopo da Lentini) - «Jacobus de Lentino domini imperatoris notarius»: così si firma in un documento messinese del 1240 il funzionario della corte di Federico II che Dante poi chiamerà il "Notaro" per antonomasia (vedi Divina Commedia, Canto XXIV Purgatorio, 56).

    Si conoscono altri atti da lui sottoscritti in varie città del meridione d'Italia. Purtroppo non si hanno sulla sua vita che pochissime informazioni.

    Fu probabilmente lo "Iacobus de Lentino" comandante del castello di Garsiliato (Caltanissetta), nominato in un documento dell'aprile 1240.

    Al "Notaro" si attribuiscono 16 canzoni di vario schema, 22 sonetti (egli è considerato l'inventore di questa forma strofica); 2 dei sonetti sono in "tenzone" con l'Abate di Tivoli, uno risponde a Jacopo Mostacci. Si deve alla sua iniziativa la rivisitazione in lingua volgare dei temi e delle forme della poesia provenzale, dando così inizio alla lirica d'arte italiana.

    È considerato il "caposcuola" dei rimatori della cosiddetta Scuola siciliana, ruolo che gli fu assegnato da Dante (Purg. citato) e che trova riscontro nella collocazione delle sue Canzoni in apertura del Canzoniere Vaticano latino 3793. Nel De vulgari eloquentia è citato per una sua canzone che viene portata quale esempio di uno stile limpido e quanto mai ornato. I suoi componimenti coprono un arco temporale che va dal 1233 al 1241.

    La corte di Federico II, nei ristretti termini cronologici in cui essa si colloca, rappresentò il modello letterario che più si staccava da quelli sino ad allora erano rappresentati nel resto dell'Italia. Il panorama letterario, era dominato soprattutto dai nobili che vi facevano ingresso perché tali. Nella Corte di Federico, l'apporto letterario fu dato dai Suoi amministratori.

    È proprio questa novità, che vede nascere figure come Jacopo da Lentini, Rinando d'Aquino, Pier delle Vigne, Guido e Oddo delle Colonne, Giacomino Pugliese, Jacopo Mostacci, l'abate Tivoli, ed altri ancora, nonché lo stesso Federico ed i figli. Nella Magna Curia, Jacopo ricopre il ruolo di Notaro dal 1233 al 1240 circa, uniche testimonianze di quest'attività all'interno della Corte federiciana, risalgono ad una lettera che egli scrisse al papa Gregorio IX, di suo pugno. La sua attività letteraria all'interno della Corte lo porta ben presto a rappresentarne il massimo esponente. Dante nella Divina Commedia, lo designa il Notaro poeta per antonomasia.

    L'attività di Jacopo e della Scuola Siciliana, s'impronta sulla poesia d'amore. Si narrano solo ed esclusivamente temi amorosi, in cui il rapporto tra uomo donna è quello cortigiano, ossia, la donna (il signore) e l'uomo (suo fedele).

    Nei loro scritti la donna assume tutti i valori, mentre, l'uomo innamorato-vassallo proclama la propria indegnità e nullità. La poesia di Jacopo e della Scuola, di cui egli ne é l'elemento trainante, ha in se grossa retorica, ed è modellata sui motivi della lirica provenzale, codificando anche le strutture metriche della canzone aulica, della canzonetta popolaresca, del discorso e soprattutto del sonetto, di cui se ne attribuisce a lui l'invenzione.

    Nella lingua in cui gli illustri della Scuola scrivono, si riscopre un siciliano colto depurato dagli elementi troppo municipalizzanti e idiomatici, che rappresentarono, invece, per i poeti siculo-toscani motivo d'esclusione da parte di Dante. Jacopo da Lentini, decanta l'amor cortese, alla sua donna, con grande originalità e creatività, utilizzando il sonetto con grande ingegno.

    Nella sue liriche il Notaro, analizza l'amore come vicenda interiore, con grande acutezza psicologica, conservando in se un grande senso di prodigio. Di Jacopo, purtroppo si hanno poche notizie, la sua attività svolta all'interno della Magna Corte, oltre quella amministrativa, rappresentò per il Regno, un momento di rinascita culturale della Sicilia, tanto che per le successive generazioni, erano "degni" del magistero dell'arte poetica.

    A Jacopo va, altresì, attribuita l'istituzione della forma metrica del sonetto, che ormai si fa risalire a una stanza di canzone isolata, anziché, come vorrebbe una teoria meno accreditata, alla fusione di due strambotti. I suoi temi si raccolgono intorno a un sentimento amoroso cantato con vaga freschezza, con un gusto musicale limpido e sorgivo(come nel sonetto Meravigliosamente), pur nelle reminiscenze e nelle ripetizioni di moduli e strutture provenzali. Così, se il famoso sonetto Amore è un desio che ven da core, può essere considerato essenzialmente una dichiarazione di poetica nell'ambito di una derivazione provenzale, altrove Jacopo sa trovare più personali accenti per il suo trepido e gioioso canto d'amore (si veda in particolare il sonetto Io m'agio posto in core a Dio servire).


    Madonna dir vo voglio


    Madonna, dir vo voglio / como l'amor m'à priso, / inver' lo grande orgoglio / che voi bella mostrate, e no m'aita. / Oi lasso, lo meo core, / che 'n tante pene è miso / che vive quando more / per bene amare, e teneselo a vita. / Dunque mor'e viv'eo? / No, ma lo core meo / more più spesso e forte / che no faria di morte - naturale, / per voi, donna, cui ama, / più che se stesso brama, / e voi pur lo sdegnate: / amor, vostra 'mistate - vidi male. / Lo meo 'namoramento / non pò parire in detto, / ma sì com'eo lo sento / cor no lo penseria né diria lingua; / e zo ch'eo dico è nente / inver' ch'eo son distretto / tanto coralemente: / foc'aio al cor non credo mai si stingua; / anzi si pur alluma: / perché non mi consuma? / La salamandra audivi / che 'nfra lo foco vivi - stando sana; / eo sì fo per long'uso, / vivo 'n foc'amoroso / e non saccio ch'eo dica: / lo meo lavoro spica - e non ingrana. / Madonna, sì m'avene / ch'eo non posso avenire / com'eo dicesse bene / la propia cosa ch'eo sento d'amore; / sì com'omo in prudito / lo cor mi fa sentire, / che già mai no 'nd'è quito / mentre non pò toccar lo suo sentore. / Lo non-poter mi turba, / com'on che pinge e sturba, / e pure li dispiace / lo pingere che face, - e sé riprende, / che non fa per natura / la propia pintura; / e non è da blasmare / omo che cade in mare - a che s'aprende. / Lo vostr'amor che m'ave / in mare tempestoso, / è sì como la nave / c'a la fortuna getta ogni pesanti, / e campan per lo getto / di loco periglioso; / similemente eo getto / a voi, bella, li mei sospiri e pianti. / Che s'eo no li gittasse / parria che soffondasse, / e bene soffondara, / lo cor tanto gravara - in suo disio; / che tanto frange a terra / tempesta, che s'aterra, / ed eo così rinfrango, / quando sospiro e piango - posar crio. / Assai mi son mostrato / a voi, donna spietata, / com'eo so' innamorato, / ma creio ch'e' dispiaceria voi pinto. / Poi c'a me solo, lasso, / cotal ventura è data, / perché no mi 'nde lasso? / Non posso, di tal guisa Amor m'à vinto. / Vorria c'or avenisse / che lo meo core 'scisse / come 'ncarnato tutto, / e non facesse motto - a vo', isdegnosa; / c'Amore a tal l'adusse / ca, se vipera i fusse, / natura perderia: / a tal lo vederia, - fora pietosa.

    Amore è un desio che ven da' core

    Amore è uno desi[o] che ven da' core
    per abondanza di gran piacimento;
    e li occhi in prima genera[n] l'amore
    e lo core li dà nutricamento. 4

    Ben è alcuna fiata om amatore
    senza vedere so 'namoramento,
    ma quell'amor che stringe con furore
    da la vista de li occhi ha nas[ci]mento: 8

    ché li occhi rapresenta[n] a lo core
    d'onni cosa che veden bono e rio
    com'è formata natural[e]mente; 11

    e lo cor, che di zo è concepitore,
    imagina, e [li] piace quel desio:
    e questo amore regna fra la gente. 14



    Chi non avesse mai veduto foco

    hi non avesse mai veduto foco
    no crederia che cocere potesse,
    anti li sembraria solazzo e gioco
    lo so isprendor[e], quando lo vedesse. 5
    Ma s'ello lo tocasse in alcun loco,
    be·lli se[m]brara che forte cocesse:
    quello d'Amore m'à tocato un poco,
    molto me coce - Deo, che s'aprendesse!
    Che s'aprendesse in voi, [ma]donna mia, 10
    che mi mostrate dar solazzo amando,
    e voi mi date pur pen'e tormento.
    Certo l'Amor[e] fa gran vilania,
    che no distringe te che vai gabando,
    a me che servo non dà isbaldimento.


    Io m'aggio posto in core a Dio servire

    Io m'aggio posto in core a Dio servire,
    com'io potesse gire in paradiso,
    al santo loco, c'aggio audito dire,
    o' si mantien sollazo, gioco e riso. 5
    Sanza mia donna non vi voria gire,
    quella c'à blonda testa e claro viso,
    che sanza lei non poteria gaudere,
    estando da la mia donna diviso.
    Ma non lo dico a tale intendimento, 10
    perch'io pecato ci volesse fare;
    se non veder lo suo bel portamento,
    e lo bel viso e 'l morbido sguardare:
    che·l mi teria in gran consolamento,
    veggendo la mia donna in ghiora stare.



    Meravigliosa-mente

    Meravigliosa-mente
    un amor mi distringe
    e mi tene ad ogn'ora.
    Com'om che pone mente 5
    in altro exemplo pinge
    la simile pintura,
    cosí, bella, facc'eo,
    che 'nfra lo core meo
    porto la tua figura. 10
    In cor par ch'eo vi porti,
    pinta come parete,
    e non pare difore.
    O Deo, co' mi par forte.
    non so se lo sapete, 15
    con' v'amo di bon core;
    ch'eo son sí vergognoso
    ca pur vi guardo ascoso
    e non vi mostro amore.
    Avendo gran disio 20
    dipinsi una pintura,
    bella, voi simigliante,
    e quando voi non vio
    guardo 'n quella figura,
    par ch'eo v'aggia davante: 25
    come quello che crede
    salvarsi per sua fede,
    ancor non veggia inante.
    Al cor m'ard'una doglia,
    com'om che ten lo foco 30
    a lo suo seno ascoso,
    quando piú lo 'nvoglia,
    allora arde piú loco
    e non pò stare incluso:
    similemente eo ardo 35
    quando pass'e non guardo
    a voi, vis' amoroso.
    S'eo guardo, quando passo,
    inver'voi no mi giro,
    bella, per risguardare; 40
    andando, ad ogni passo
    getto uno gran sospiro
    ca facemi ancosciare;
    e certo bene ancoscio,
    c'a pena mi conoscio, 45
    tanto bella mi pare.
    Assai v'aggio laudato,
    madonna, in tutte parti,
    di bellezze c'avete.
    Non so se v'è contato 50
    ch'eo lo faccia per arti,
    che voi pur v'ascondete:
    sacciatelo per singa
    zo ch'eo no dico a linga,
    quando voi mi vedite. 55
    Canzonetta novella,
    va' canta nova cosa;
    lèvati da maitino
    davanti a la piú bella,
    fiore d'ogn'amorosa, 60
    bionda piú c'auro fino:
    «Lo vostro amor, ch'è caro,
    donatelo al Notaro
    ch'è nato da Lentino».
    [Modificato da Bag End 10/08/2007 21:02]
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    Re: Re:
    Bag End, 10/08/2007 17.56:

    silvanapat, 09/08/2007 18.41:




    In merito alla Crociata degli Scomunicati del 1229 conclusa senza spargimento di sangue, (cfr. precedente punto di questo sito) lo storico francese Julien Green nella sua accreditata biografia di San Francesco (Milano, Rizzoli, 1984) non esita ad ipotizzare che proprio "Malik al-Kamil restituì Gerusalemme a Federico II forse conquistato dalle idee del poverello".



    Malik al-Kamil (nipote del grande Saladino) è il sultano che per timore di un'invasione delle terribili truppe di Ghengis Kahn, chiede l'aiuto di Federico. Il tutto è testimoniato dalle lettere che si inviavano i due sovrani e dagli ambasciatori dei due regni (ora non ricordo i nomi). Temo che lo storico francese abbia preso una cantonata. Silvana se vuoi posso inserire questa parte della storia, è quel capitolo che ho letto ieri pomeriggio nel libro sulle crociate: il più avvincente di tutti, ovviamente. Qualcosa ho già scritto a proposito della crociata, ma era un sunto. In realtà la questione tra i due sovrani era molto complessa.








    sì, Simona inseriscila.
    Il rapporto tra Federico ed il Sultano è molto importante!


    p.s. ho notato che questa pagina n.8 è lievitata parecchio.
    Sembra la pasta per la pizza pronta per essere lavorata ed infornata.
    Bisognerà sgonfiarla.
    ciao
    silvana


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    00 14/08/2007 13:02

    Stefano Protonotaro



    Stefano Protonotaro da Messina fu uno scrittore appartenente alla Scuola siciliana identificabile con uno Stefano da Messina che tradusse dal greco in latino e dedicò due trattati arabi di astronomia a Manfredi, figlio di Federico II.

    Di tutti i componimenti appartenenti alla Scuola Siciliana quello di Protonotaro è l'unico ad esserci pervenuto interamente in lingua siciliana dal momento che le rime della scuola, a causa della grande diffusione che ebbero nel resto della penisola, ci sono giunte in codici toscani e pertanto trascritte in lingua toscanizzata.

    La canzone di Protonotaro ci è giunta attraverso un filologo del Cinquecento, Giovanni Maria Barbieri, che la copiò da un codice che andò in seguito perduto.

    La canzone pervenutaci è pertanto un rarissimo esempio di siciliano illustre, cioè del linguaggio che i seguaci colti di Federico elaborarono attraverso il raffinamento della lingua parlata e comune, rendendo più regolari certe forme e introducendo il lessico tecnico della poesia d'amore provenzale.

    La canzone ha un metro con stanze unissonans, cioè formata da due piedi identici (abC) e sirma dDEeFF al quale segue, secondo il modo provenzale, una tornada o congedo di struttura uguale alla sirma.

    Nel vocalismo della prima stanza della celebre canzone si può notare la base siciliana-comune.

    Il siciliano ha infatti un sistema a cinque vocali che, a differenza del toscano, non fa distinzione fra le due e e le due o, mentre il toscano dispone di sette vocali.

    Accade così che quasi tutto quello che conosciamo della produzione siciliana ci si presenta sotto una forma diversa da quella così caratteristica della canzone Pir meu cori alligrari.


    Pir meu cori allegrari

    Pir meu cori allegrari,
    chi multu longiamenti
    senza alligranza e joi d'amuri è statu,
    mi ritornu in cantari,
    ca forsi levimenti 5
    da dimuranza turniria in usatu
    di lu troppu taciri;
    e quandu l'omu à rasuni di diri,
    ben di' cantari e mustrari alligranza,
    ca senza dimustranza 10
    joi siria sempri di pocu valuri;
    dunca ben di' cantari onni amaduri.
    E si per ben amari
    cantau juiusamenti
    homo chi avissi in alcun tempu amatu, 15
    ben lu diviria fari
    plui dilittusamenti
    eu, chi su di tal donna inamuratu,
    dundi è dulci placiri,
    preiu e valenza e juiusu pariri 20
    e di billizi cuta[n]t' abondanza,
    chi illu m'è pir simblanza
    quandu eu la guardu, sintir la dulzuri
    chi fa la tigra in illu miraturi;
    chi si vidi livari 25
    multu crudilimenti
    sua nuritura, chi illa à nutricatu,
    e si bonu li pari
    mirarsi dulcimenti
    dintru unu speclu chi li esti amustratu, 30
    chi l'ublia siguiri.
    Cusì m'è dulci mia donna vidiri:
    chi 'n lei guardandu met[t]u in ublianza
    tutta'altra mia intindanza,
    sì chi instanti mi feri sou amuri 35
    d'un culpu chi inavanza tutisuri.
    Di chi eu putia sanar;
    multu legeramenti,
    sulu chi fussi a la mia donna a gratu
    meu sirviri e pinari; 40
    m'eu duitu fortimenti
    chi quandu si rimembra di sou statu
    nu lli dia displaciri.
    Ma si quistu putissi adiviniri,
    ch'Amori la ferissi de la lanza 45
    chi mi fer' e mi lanza,
    ben crederia guarir de mei doluri,
    ca sintiramu equalimenti arduri.
    Purriami laudari
    d'Amori bonamenti, 50
    com'omu da lui beni ammiritatu;
    ma beni è da blasmari
    Amur virasementi,
    quandu illu dà favur da l'unu latu,
    chi si l'amanti nun sa suffiriri, 55
    disia d'amari e perdi sua speranza.
    Ma eu suf[f]ru in usanza,
    chi ò vistu adessa bon sufrituri
    vinciri prova et aquistari hunuri.
    E si pir suffiriri, 60
    ni per amar lialmenti e timiri,
    homo aquistau d'Amur gran beninanza,
    digu avir confurtanza
    eu, chi amu e timu e servi a tutt'uri
    cilatamenti plu chi altru amaduri. 65


    Assai mi placeria


    Assai mi placeria
    se zo fosse ch'Amore
    avesse in sè sentore
    di 'ntendere e d'audire:
    ch'eo li rimembreria, 5
    como fa servidore
    per fiate a suo segnore,
    meo luntano servire;
    e fariali a savire
    lo mal di ch'eo non m'oso lamentare 10
    a quella che 'l meo cor non pò ubriare.
    M'Amor non veo, e de lei so temente,
    per che meo male adesso è plu pungente.
    Amor sempre mi vede
    ed àmi in suo podire, 15
    m'eo non posso vedire
    sua propia figura.
    M'eo so ben di tal fede,
    poi c'Amor pò ferire,
    che ben pote guarire 20
    secondo sua natura.
    Zo è che m'asigura,
    per ch'eo mi dono a la sua volontate
    como cervo cacciato, mante fiate,
    che, quando l'omo li crida plu forte, 25
    torna ver lui non dubitando morte.
    Non deveria dottare
    d'Amor veracemente,
    poi liale ubidente
    li fu da quello giorno 30
    che mi seppe mostrare
    la gioi che sempre ò 'n mente,
    che m'à distrettamente
    tutto ligato intorno,
    come fa l'unicorno 35
    d'una pulzella vergine dorata,
    ch'è da li cacciatori amaistrata,
    de la qual dolzemente si 'nnamura,
    sì che lo liga e quegli no nde cura.
    Poi che m'appe ligato, 40
    isò gli ocli e sorrise,
    sì c'a morte mi mise,
    come lo badalisco
    c'ancide che gli è dato;
    cum soi ogli m'ancise! 45
    La mia mort' è cortise
    ch'eo moro e poi rivisco,
    Oy Deo, che forte visco
    mi par che s sia [a]preso a le mie ale!
    Chè viver nè morire non mi vale, 50
    com'om che 'n mare vedesi perire
    e camperia potesse in terra gire.
    Terra mi fora porto
    di vita e seguranza;
    ma merzede e dottanza 55
    mi ristringe e fa muto,
    da poi mi sono accorto
    d'Amor chi no m'avanza;
    chè per lunga astetanza
    lo giudeo è perduto. 60
    E s'eo non agio aiuto
    d'Amor che m'ave e tene in sua pregione,
    non so che corte mi faza rasone.
    Faragio como penetenzïale,
    che spera bene sofferendo male. 65



    Assai cretti celare

    Assai cretti celare
    ciò che mi conven dire,
    ca lo troppo tacere
    noce manta stagione,
    e di troppo parlare
    può danno adivenire:
    per che m'aven temere
    l'una e l'altra cagione.
    Quand'omo ha temenza
    di dir ciò che convene,
    levemente adivene
    che 'n suo dire è fallenza:
    omo temente no è ben suo segnore;
    per che, s'io fallo, il mi perdoni Amore.



    Certo ben so' temente
    di mia voglia mostrare;
    e quando io creo posare,
    mio cor prende arditanza;
    e fa similemente
    come chi va a furare,
    che pur veder li pare
    l'ombra di cui ha dottanza,
    e poi prende ardimento
    quant'ha magior paura.
    Così Amor m'asicura,
    quando più mi spavento,
    chiamar merzé a quella a cui so' dato;
    ma, poi la veo, ublio zo c'ho pensato.



    Dolce m'è l'ublïanza,
    ancor mi sia nocente,
    ch'eo vivo dolzemente
    mentre mia donna miro;
    ed honne gran pesanza,
    poi ch'io so' canoscente
    ch'ella non cura nente
    di ciò dond'io sospiro.
    piango per usagio,
    come fa lo malato
    che si sente agravato
    e dotta in suo coragio,
    ché per lamento li par spesse fiate
    li passi parte di ria volontate.


    Così pianto e lamento
    mi dà gran benenanza,
    ch'io sento mia gravanza
    per sospiri amortare;
    e dammi insegnamento
    nave ch'ha tempestanza,
    che torna in allegranza
    per suo peso allegiare.
    E quando agio al[l]egiato
    de lo gravor ch'io porto,
    io credo essere in porto
    di riposo arivato;
    così m'aven com'a la cominzaglia:
    ch'io creo aver vinto, ancor so' a la bat[t]aglia.


    Però com'a la fene
    vorria m'adivenisse,
    s'Amor lo consentisse,
    poi tal vita m'è dura,
    che s'arde e poi rivene:
    ché forse, s'io m'ardesse
    e di nuovo surgesse,
    ch'io muteria ventura;
    o ch'io mi rinovasse
    come cervo in vechiezze,
    che torna in sue bellezze:
    s'essa mi ritrovasse,
    forse che rinovato piaceria



    [continua...]
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    00 14/08/2007 13:08
    Ruggeri d'Amici

    fu un poeta della Scuola siciliana che lavorò intorno al 1250 presso la corte di Federico II.

    Di Ruggieri rimane solo una canzone, Sovente Amore n'à ricuto manti.


    Sovente Amore n'à ricuto manti

    Sovente Amore n'à ricuto manti,
    c'a le lor donne non ànno leanza
    e non conoscon ciò c'a loro è dato,
    e che leali chiamanosi amanti;
    non vegion c'Amor mettono in bassanza, 5
    per cui sto mondo par che sia avanzato.
    Ma s'eo voglio tacere lo meo stato,
    fallirò in ubrianza
    incontr'al meo volire,
    ca, s'eo voglio ver dire, 10
    in sì gran gioia per lui ò allocanza,
    ca presso a l'aire par ch'eo sia montato.
    E più che nulla gioia, ciò m'è viso,
    sì ricco dono Amore m'à donato,
    che mi ne fa tuttora in gioia stare, 15
    che 'nfra esti amanti m'à sì bene asiso,
    che più che meo servir m'à meritato
    Cotale dono non si de' celare;
    per ciò m'è viso, e cuito ben visare,
    c'Amor m'à sì ariccato 20
    in tutto 'l meo volere,
    e dato m'à a tenere
    più ricca gioia mai non fue visato,
    Di ciò mi posso, s'io voglio, avantare.
    Ricco mi tegno sovr'ogn'altro amante, 25
    a tal segnore preso agio a servire
    da cui larghezza gioia par che vene;
    e no mi trago arreri, ma più avante,
    per ch'io li possa a tuttora piacire:
    ciò è l'Amor che 'n sua bailìa mi tene, 30
    e non mi lassa e tenmi in gioia e 'n bene;
    e per leal servire
    la mia donna, à voglianza
    ch'eo la serva in possanza,
    e non mi deia di ben far partire; 35
    però di lei tuttora mi sovene.
    Di lei sovenmi, ca ten lo meo core,
    e non me ne por[r]ia già mai partire,
    però ch'eo seria corpo senza vita;
    chè m'à donato a quella ched è flore 40
    di tutte l'altre donne al meo parire,
    e da cui nullo flore fa partita;
    ch'eo l'agio tutto tempo ben servita,
    e voglio ben servire
    in tutto 'l suo talento, 45
    che le sia a piacimento;
    e 'nfra esti amanti possolo ben dire
    c'amerolla di tutta gioi compita.

    [continua...]
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    Arrigo Testa


    Le notizie biografiche si restringono alla firma presente sul manoscritto Vaticano Latino 3793 al termine della canzone Vostra orgogliosa ciera. L'autore si firma Notaro Arrigo Testa da Lentino; in passato, comunque, la sua provenienza è stata messa in dubbio anche a causa delle diciture discordati presenti in altri manoscritti (in uno la canzone viene attribuita a Giacomo da Lentini, in un altro ad un non meglio identificato Arrigus divitis): Arrigo Testa era identificato in Henricus Testa, podestà di Parma e probabilmente aretino di nascita.

    L'unica canzone che ci è pervenuta, dedicata a Giacomo da Lentini, caposcuola dei siciliani, è Vostra orgogliosa ciera. In essa si ripropone il tema che è comune a tutti i poeti della cerchia di Federico II: l'amore, e in particolare, della conquista della donna.


    Vostra orgogliosa ciera (1245)


    Vostra orgogliosa ciera,
    E la fera sembianza
    Mi trae di fina amanza[1],
    E mettemi in errore.
    Fammi tener manera
    D'uomo, ch' è in disperanza,
    Che non ha in se membranza
    D' avere alcun valore.
    E in ciò biasimo Amore,
    Che non mi dà misura,
    Vedendo voi sì dura
    Ver naturale usanza.
    Ben passa costumanza;
    Ed è quasi for d'uso
    L'affar vostro noioso
    Per levezza[2] di core.

    Del vostro cor certanza
    Ben ho veduto in parte;
    Chè assai poco si parte
    Vista da pensamento.
    Se non fosse a fallanza[3]
    Proponimento d'arte,
    Che dimostrasse in parte
    Altro, ch'ave in talento.
    Ma lo fin piacimento,
    Da cui l'Amor discende,
    Sola vista lo prende,
    Ed il cor lo nodrisce,
    Sì che dentro s'accresce,
    Formando sua maniera;
    Poi mette fuor sua spera,
    E fanne mostramento.

    Però, Madonna mia,
    Non può mondo passare,
    Nè stagione obliare;
    Ogni cosa in suo loco
    Convien ch'ella pur sia,
    Chè manifesto pare,
    E tutto l'appostare[4]
    Ver la natura è poco.
    Vedete pur lo foco,
    Che finchè sente legna,
    Infiamma, e non si spegna[5],
    Né può stare nascoso.
    Cosi ha l'Amore in uso
    Per fermo signoraggio,
    Che cui tlen per vassaggio[6]
    Convien che mostri gioco.

    Non mi mostrate gioco
    N'è gaio sembramento[7]
    D'alcuno buon talento,
    Ond'io avesse allegranza;
    Ma mi tenete in loco,
    Ond'io gran noia sento,
    Chè fate infingimento
    Di verace amistanza :
    E ciò è gran fallanza,
    Che così mi tradite.
    Poichè tanto savite[8],
    Trovate alcuna guisa,
    Che non siate riprisa
    Di sì gran fallimento;
    Di vista o pensamento
    Aggiate in cor fermanza.

    Di me fermanza avete,
    Ch'io son vostra tenuta[9];
    Poi[10] lo mio cor non muta
    Di far leale omaggio.
    Dunqua, se voi mi siete
    Di sì fera paruta[11];
    Ben è strana partuta[12]
    Per bene aver dannaggio.
    Poi[13] savete ch'è oltraggio,
    Cacciate la ferezza,
    Che non è pregio altezza[14]
    Verso umiltate usare:
    Chè uom di grande affare
    Perde lo suo savere:
    Chè lo 'nganna volere
    Per soverchio coraggio.

    Note:
    1. ↑ Di puro, di perfetto amore Salv.
    2. ↑ Levità, leggerezza Salv.
    3. ↑ A fallo, cioè per inganno.
    4. ↑ Cioè il fingere Salv.
    5. ↑ Spegna, da spegnare, che si trova nell' Albertano, e ne' Gradi di San Girolamo, ambedue manoscritti appresso di me Salv.
    6. ↑ Vassallo Salv.
    7. ↑ Sembianza, vista, aspetto.
    8. ↑ Savete, sapete.
    9. ↑ Possesso, cioè vostro schiavo.
    10. ↑ Poichè Salv.
    11. ↑ Apparenza, aspetto Salv.
    12. ↑ Strano partito Salv.
    13. ↑ Poichè Salv.
    14. ↑ Alterezza, orgoglio.



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    00 14/08/2007 13:19
    Odo delle Colonne


    Non si sa praticamente nulla della sua vita. È stato uno dei primi seguaci di Federico II, probabilmente era parente di Guido delle Colonne, è nato a Messina.
    Le due canzoni Oi lassa 'nnamorata (di attribuzione incerta) e Distretto core e amoruso si avvicinano molto al canto popolare, pur mantenendo un carattere aulico: si tratta di due lamenti di tema ovviamente amoroso.


    Distretto core e amoruso

    Distretto core e amoruso
    gioioso mi fa cantare;
    e certo s'io son pensuso,
    non è da maravigliare:
    c'Amor m'à usato a tal uso 5
    che m'à sì preso la voglia,
    che 'l disusare m'è doglia
    vostro piacere amoruso.

    L'amoroso piacimento
    che mi donava allegranza, 10
    vegio che reo parlamento
    me n'à divisa speranza.
    Ond'io languisco e tormento
    per [la] fina disianza,
    ca per lunga dimoranza 15
    troppo m'adastia talento.

    Lo pensoso adastiamento
    degiate, donna, allegrare,
    per ira e isplacimento
    d'invidïoso parlare, 20
    e dare confortamento
    a lu leali amadori,
    sì che li rei parladori
    n'agiano sconfortamento.

    Sconfortamento n'avrano, 25
    poi comandato m'avete
    ch'io mostri tal viso vano,
    che voi, bella, conoscete;
    e co [quello] crederano
    ch'io ci agia mia diletanza, 30
    e perderanno credanza
    del falso dire che fano.

    Fannomi noia e pesanza
    di voi, mia vita piagente,
    per mantener loro usanza, 35
    la noiosa e falsa gente.
    Ed io com'auro in bilanza
    vi son leale, sovrana
    fiore d'ogni cristiana,
    per cui lo cor si 'navanza. 40


    [continua...]
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    00 14/08/2007 13:31
    Guido delle Colonne

    Guido delle Colonne (Roma o Messina, 1210 circa - dopo il 1287) fu un poeta della scuola siciliana, di professione giudice a Messina. Ci rimangono 5 canzoni, di cui la più conosciuta è Amor che l'aigua per lo foco lassi, conservata nel manoscritto Vaticano-Latino 3793, e citata da Dante nel De Vulgari Eloquentia II, vi, 6.
    Della sua vita, come per molti altri esponenti della scuola siciliana, non rimangono che poche tracce documentarie che ne situano l'attività dal 1243 al 1280. Probabilmente scrisse l'Historia Trojana (che tradusse liberamente dal Roman de Troie e che terminò nel 1287), commissionata da Matteo della Porta, vescovo di Palermo. Partì per l'Inghilterra per visitare il re Edoardo I e fu giudice a Messina dal 1257 al 1280.


    Amor, che lungiamente m'ài menato


    Amor, che lungiamente m'ài menato
    a freno stretto senza riposanza,
    alarga le toi retine, in pietanza,
    chè soperchianza - m'a vinto e stancato;
    c'ò più durato - ch'eo non ò possanza, 5
    per voi, madonna, a cui porto lianza
    più che non fa assessino asorcuitato,
    che si lassa morir per sua credanza.
    Ben este affanno dilittoso amare,
    e dolze pena ben si pò chiamare; 10
    ma voi, madonna, de la mia travaglia,
    ca sì mi squaglia, - prenda voi merzide,
    che ben è dolze mal, se no m'auzide.

    Oi dolze ciera co sguardo soavi,
    più bella d'altra che sia in vostra terra, 15
    trajete lo meo core ormai di guerra,
    che per voi erra - e gran trataglia nd' avi:
    ca si gran travi - poco ferro serra,
    e poca pioggia grande vento aterra,
    però, madonna, non vi 'ncresca gravi, 20
    s'Amor vi sforza, c'ogni cosa inserra;
    chè certa no gli è troppo disinore
    quand'omo è vinto da un suo megliore,
    e tanto più da Amor che vince tutto.
    Però non dutto - c'Amor non vi dismova 25
    saggio guerreri vince guerra e prova.

    Non dico c'a la vostra gran belleza
    orgoglio non convegna e stiavi beni,
    c'a bella donna orgoglio ben conveni,
    che si manteni - in pregio ed in grandeza. 30
    Troppa altereza - è quella che sconveni;
    di grande orgoglio mai ben non aveni.
    Però, madonna, la vostra dureza
    convertasi in pietanza e si rinfreni;
    non si distenda tanto ch'io ne pera. 35
    Lo sole è alto, si face lumera,
    e via più quanto 'n altura pare:
    vostro orgogliare, - per zo, e vostra alteze
    facami pro' e tornimi in dolceze.

    E' allumo dentro e sforzo in far semblanza 40
    di non mostrar zo che lo meo cor senti.
    Oi quant'è dura pena al cor dolenti
    stare tacenti - e non far dimostranza!
    Chè la pesanza - a la ciera consenti,
    e fanno vista di lor portamenti, 45
    cosi son volentieri 'n acordanza,
    la cera co lo core insembramenti.
    Forza di senno è quella che soverchia
    ardir di core, asconde ed incoverchia.
    Ben è gran senno, chi lo pote fare, 50
    saver celare - ed essere segnore
    de lo suo core quand'este 'n errore.

    Amor fa disviare li più saggi,
    e chi più ama a pena à in sè misura;
    più folle è quello che più si 'nnamura. 55
    Amor non cura - di far suoi dannaggi,
    ca li coraggi - mette in tal calura,
    che non pò rifreddare per freddura.
    Gli occhi a lo core sono li messaggi
    de' lor cominciamenti per natura. 60
    Dunque, madonna, gli occhi e lo meo core
    avete in vostra man dentro e di fore,
    ch'Amor mi sbatte e smena che no abento,
    sì come vento - smena nave in onda.
    Voi siete meo pennel che non affonda. 65



    Ancor che l'aigua per lo foco lassi

    Ancor che l'aigua per lo foco lassi
    la sua grande freddura
    non cangeria natura
    s'alcun vasello in mezzo non vi stassi;
    anzi averria senza lunga dimura 5
    che lo foco astutassi,
    o che l'aigua seccassi;
    ma per lo mezzo l'uno e l'autra dura.
    Cusì, gentil criatura,
    in me à mostrato Amore 10
    l'ardente suo valore:
    che senza Amore er'aigua fredda e ghiaccia,
    ma Amor m'à sì allumato
    di foco che m'abraccia,
    ch'eo fora consumato, 15
    se voi, donna sovrana,
    non fustici mezzana
    infra l'Amore e meve,
    ca fa lo foco nascere di neve.

    Immagine di neve si pò diri 20
    omo che no à sentore
    d'amoroso calore:
    ancor sia vivo, non si sa sbaudiri.
    Amore è uno spirito d'ardore,
    che non si pò vediri, 25
    ma sol per li sospiri
    si fa sentire in quello ch'è amadore.
    Cusì, donna d'aunore,
    lo meo gran sospirare
    vi por[r]ia certa fare 30
    de l'amorosa flamma, und'eo so involto;
    e non so com'eo duro,
    sì m'ave preso e tolto;
    ma parm' esser siguro
    che molti altri amanti, 35
    per amor tutti quanti,
    funo perduti a morti,
    che non amaro quant'eo, nè sì forti.

    Eo v'amo tanto, che mille fiate
    in un'or mi s'arranca 40
    lo spirito che manca,
    pensando, donna, la vostra beltate.
    E lo disio c'ò lo cor m'abranca,
    crescemi volontate,
    mettemi 'n tempestate 45
    ogni penseri, chè mai non si stanca.
    O colorita e blanca
    gioia, de lo meo bene
    speranza mi mantene;
    e s'eo languisco non posso morire, 50
    ca, mentre viva sete,
    eo non por[r]ia fallire,
    ancor che fame e sete
    lo corpo meo tormenti;
    ma, sol ch'eo tegna menti 55
    vostra gaia persona,
    obbrio la morte, tal forza mi dona.

    Eo non credo sia quel[lo] ch'avia,
    lo spirito che porto,
    ched eo fora già morto, 60
    tant'ò passato male tuttavia;
    lo spirito chi aggio, und'eo mi sporto,
    credo lo vostro sia,
    che nel meo petto stia
    e abiti con meco in gioi e diporto. 65
    Or mi son bene accorto,
    quando da voi mi venni,
    che, quando mente tenni
    vostro amoroso viso netto e chiaro,
    li vostri occhi piagenti 70
    allora m'addobraro,
    che mi tennero menti
    e diedermi nascoso
    uno spirto amoroso,
    ch'assai mi fa più amare 75
    che no[n] amò null'altro, ciò mi pare.

    La calamita, contano i saccenti
    che trar[r]e non por[r]ia
    lo ferro per maestria,
    se no che l'aire in mezzo lu consenti; 80
    ancor che calamita petra sia,
    l'altre petre neenti
    non son cusì potenti
    a traier, perchè non n'àno bailìa.
    Così, madonna mia, 85
    l'Amor s'è apperceputo
    che non m'avria potuto
    traer a sè, se non fusse per vui.
    E sì son donne assai,
    m'àno nulla per cui 90
    eo mi movesse mai,
    se non per voi, piagente,
    in cui è fermamente
    la forza e la vertuti.
    Addonque prego l'Amor che m'aiuti. 95





    La mia gran pena e lo penoso affanno

    La mia gran pena e lo gravoso af[f]anno,
    c'ò lungiamente per amor patuto,
    madonna lo m'à 'n gioia ritornato;
    pensando l'avenente di mio danno,
    in sua merze[de] m'ave riceputo 5
    e lo sofrire mal m'à meritato:
    ch'ella m'à dato - tanto bene avire,
    che lo sofrire - molta malenanza
    agi' ubriato, e vivo in allegranza.

    Allegro son ca tale segnoria 10
    agio acquistata, per mal soferire,
    in quella che d'amar non vao cessando.
    Certo a gran torto lo mal blasmeria,
    chè per un male agio visto avenire
    poco di bene andare amegliorando, 15
    ed atardando - per molto adastiare
    un grand'af[f]are - tornare a neiente.
    Chi vole amar, dev' essere ubidente.

    Ubidente son stato tut[t]avia,
    ed ò servuto adesso co leanza 20
    a la sovrana di conoscimento,
    quella che lo meo core distringìa
    ed ora in gioia d'amore mi 'navanza.
    Soferendo agio avuto compimento,
    e per un cento - m'ave più di savore 25
    lo ben c'Amore - mi face sentire
    per lo gran mal che m'à fatto sofrire.

    Se madona m'à fatto sof[e]rire
    per gioia d'amore avere compimento,
    pene e travaglia ben m'à meritato; 30
    poi ch'a lei piace, a me ben de' piacire,
    che nd'agio avuto tanto valimento:
    sovr'ogne amante m'ave più 'norato,
    c'agio aquistato - d'amar la più sovrana:
    chè, se Morgana - fosse infra la gente, 35
    inver madonna non par[r]ia neiente.

    Neiente vale amor sanza penare:
    chi vole amar, conviene mal patire,
    onde mille mercè n'agia lo male
    che m'a[ve] fatto in tanto ben montare, 40
    ch'io non agio infra la gente ardire
    di dir la gioia ove il mi' core sale.
    Or dunque vale - meglio poco avire,
    che ben sentire - troppo a la stagione:
    per troppo ben diventa omo fellone. 45


    [continua...]
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    00 14/08/2007 13:42
    Mazzeo di Ricco


    Mazzeo di Ricco (Messina?, XIII secolo) fu un poeta della Scuola siciliana. A parte il nome, della sua vita ci rimane solo un documento autografo del 1252 e una lettera a lui inviatagli da Guittone d'Arezzo.
    gli vengono attirbuite 6 canzoni ed 1 sonetto.

    Il sonetto:

    Chi conoscesse sì la sua fallanza

    Chi conoscesse sì la sua fallanza
    com'om conosce l'altrui fallimento
    di mal dire d'altrui avria dottanza
    per la pesanza del su' mancamento. 4

    Ma per lo corso de la iniqua usanza
    ogn'om si cred'esser di valimento,
    e tal omo è tenuto in dispregianza
    che spregia altrui, ma non sa zo ch'i' sento. 8

    Però vor[r]ia che fosse distinato
    che ciascun conoscesse il so onore
    e 'l disinore e 'l pregio e la vergogna. 11

    Talotta si commette tal peccato
    che, s'omo conoscesse il so valore,
    di dicer mal d'altrui non avria sogna. 14



    Le canzoni:

    Amor, avendo interamente voglia


    Amore, avendo interamente voglia
    di satisfare a la mia 'namoranza,
    per voi, madonna, fecimi gioioso;
    ben mi terria bene aventuroso
    s'eo non avesse aconceputa doglia 5
    de la vostra amorosa benenanza.
    Mentre ch'eo disïava,
    ver è ch'eo tormentava - disïando,
    ma non crudelemente;
    ché, male avendo e pur bene aspettando, 10
    lo male m'era assai meno pungente.

    Da poi che per la mia disideranza
    Amor di voi mi diede placimento,
    la mia favilla in gran foco è tornata
    e la picciula neve in gran gialata: 15
    ch'agio trovato in voi tanta fallanza,
    unde m'ha radobrato lo tormento.
    Dunqua meglio mi fora,
    donna, ch'eo fosse ancora - disïoso
    ch'andar di male in peio, 20
    como facc'eo divenendo geloso;
    ca, s'eo vi perdo, e voi perdete preio.

    Poi che 'n voi trovo tanto fallimento,
    che due parti facite d'uno core,
    da voi mi parto ancor mi sia pesanza, 25
    come quello che piange ed ha alegranza:
    ché lassa, ancor li sia displacimento,
    male per bene e bene per megliore.
    A ciò che voi sacciate
    che de la vostra colpa son pesante, 30
    come fino amadori
    da voi partendo lassovi a un amante,
    ché non convene un regno a dui segnori.

    Ben è malvagio chi bon fatto ubria,
    ma quelli è stramalvagio e scaunoscente 35
    chi gran rispetto mette in obrïanza:
    ed io, abendo in ciò consideranza,
    non son più vostro e voi non tegno mia,
    così m'avete punto duramente.
    Ma di questa partenza 40
    pur so ch'eo n'agio doloroso core;
    ma vaomine allegrando,
    sì come fa lo cesne quando more,
    che la sua vita termina in cantando.

    Di ciò mi pesa, ch'eo non son colpato 45
    e son dannato, come avesse colpa:
    ché la pena che l'om ha indegnamente
    assai più dote dolorosamente.
    Da poi che pur leale vi son stato,
    nulla ragion, né torto non vi scolpa. 50
    Donqu'è ragione, donna,
    che 'l nostro amore si parta 'ntrasatto,
    ch'io agio audito dire
    che solamente per uno misfatto
    si perde un luntano ben servire. 55



    La bel aventurosa innamoranza

    La ben aventurosa innamoranza
    tanto mi stringe e tene,
    che d'amoroso bene - m'asicura.
    Dunqua non fa lo meo cor soperchianza,
    si ismisuratamente 5
    di voi, donn'avenente, - si 'nnamura.
    Ca s'omo à dismisura,
    conservando leanza
    non fa dismisuranza,
    sì che sia da blasmare: 10
    c'ognunque cosa si può giudicare
    perfettamente bona in sua natura.
    Dunqua, sì com'io uso ismisuranza
    in voi, madonna, amare,
    eo non so da blasmare - per rasione. 15
    Però, madonna, solo una fallanza
    non mi dovria punire,
    poi c'a lo meo fallire - ebbi casione.
    Senza riprensione
    pot'omo folleiare 20
    e talor senno usare,
    ch'è pegio che follia;
    per zo, madonna, ogn'omo doveria
    savere ed esser folle per stasione.
    Da voi, madonna, fu lo nascimento 25
    de la mia 'namoranza,
    und'ò ferma speranza - in vostro amore;
    chè tuttavia lo bon cuminciamento
    mi fa considerare
    ch'eo degia megliorare - a tutesore. 30
    Ca lo bon pingitore
    in tanto è da laudare
    quanto fa simigliare
    tutta la sua pintura,
    sì che sia naturale la figura. 35
    Però da voi aspetto lo megliore.




    Lo core innamorato

    «Lo core innamorato,
    messere, si lamenta
    e fa piangere li occhi di pietate;
    da me este alungiato,
    e lo meo cor tormenta 5
    vegnendo a voi lo giorno a mille fiate.
    Avendo di voi voglia,
    lo meo cor a voi mando,
    ed ello vene e con voi si sogiorna;
    e poi a me non torna, 10
    a voi lo racomando
    no li faciate gelosia, nè doglia».
    «Donna, se mi mandate
    lo vostro dolze core
    innamorato sì come lo meo, 15
    sacciate in veritate
    ca per verace amore
    inmantenente a voi mando lo meo,
    perchè vi degia dire
    com'eo languisco e sento 20
    gran pene per voi, rosa colorita;
    ch'eo non agio altra vita,
    se non solo un talento:
    com'eo potesse a voi, bella, venire».
    «Messere, se talento 25
    avete di venire,
    nde son cento tanti disiosa.
    Questo congiungimento
    mi conduce a morire:
    quant'eo più v'amo, e più ne son gelosa, 30
    ed ò sempre paura
    ne per altra intendanza
    lo vostro cor non faccia fallimento;
    und'eo tuttor tormento,
    s'eo non ò siguranza 35
    che d'altra donna non agiate cura».
    «Di me, madonna mia,
    non vi convene avire
    nè gelosia, nè doglia, nè paura.
    Omo non si por[r]ia 40
    ne gli ochi compartire
    che ne vedesse due 'n una figura;
    tanto coralemente
    no m por[r]iano amare,
    che 'n altra parte gisse lo mio core. 45
    Così mi stringe Amore,
    c'altro non posso fare
    se non tornare a voi, donna valente».




    Lo gran valore e lo pregio amoroso

    Lo gran valore e lo pregio amoroso
    ch'è 'n voi, donna valente,
    tuttor m'alluma d'amoroso foco,
    che mi dispera e fammi pauroso,
    com'om ca di neente 5
    volesse pervenire in alto loco.
    Ma se li è distinato,
    multiprica lo folle pensamento,
    e la ventura li dà piacimento
    de lo gran bene ch'à disiderato. 10

    Così, pensando a la vostra bieltate,
    Amor mi fa paura,
    tanto sete alta e gaia ed avenente,
    e tanto più ca voi mi disdegnate.
    Ma questo m'assigura, 15
    ca dentro l'aigua nasce foco arzente,
    e par contra natura;
    così poria la vostra disdegnanza
    tornare 'n amorosa pietanza,
    se volesse la mia bona ventura. 20

    Madonna, se del vostro amor son priso,
    non vi paia fereze,
    né riprendete li occhi 'namorati;
    guardate lo vostro amoroso viso,
    l'angeliche belleze 25
    e l'adorneze e la vostra bieltati;
    e serete sigura
    che la vostra belleze mi ci 'nvita
    per forza, come fa la calamita
    quando l'aguglia tira per natura. 30

    Certo ben fece Amore dispietanza,
    che di voi, donna altera,
    mi 'namorao, poi non v'è in piacimento.
    Or corno troveraio in voi pietanza?
    ch'eo non veio manera 35
    com'eo vi possa dire ciò ch'io sento.
    Però, donna avenente,
    per Dio vi prego, quando mi vedete,
    guardatemi, così cognoscerete
    per la mia ciera ciò che lo cor sente. 40

    Sì 'namoratamente m'ha 'nflammato
    la vostra dilettanza,
    ch'io non mi credo già mai snamorare.
    Ché lo cristallo, poi ch'è ben gelato,
    non pò aver speranza 45
    ch'ello potesse neve ritornare.
    E da poi ch'Amore
    m'ha dato, donna, in vostra potestate,
    agiatene vèr me alcuna pietate,
    a ciò ch'agiate in voi tutto valore. 50





    Madonna, de lo meo 'namoramento


    Madonna, de l[o] meo 'namoramento
    c'assai più c'altamente
    m'ave distretto e fatto 'namorare,
    incontro a meve a voi me ne lamento;
    ma non mi val neiente, 5
    ca lo meo cor non posso rinfrenare;
    c'Amore, che sormonta ogne ardimento,
    mi sforza e vince e mena al suo talento,
    sì ch'io di meve no agio segnoria;
    di ch'io mi doglio, avere la vor[r]ia, 10
    c'assai gra[n] regno rege, ciò mi pare,
    chi se medesmo può segnoregiare.
    Po i ch'eo non posso me segnoregiare,
    Amor mi segnoria.
    Dunque è Amore segnor certanamente; 15
    ma non posso già mai considerare
    che l'Amore altro sia
    se non distretta voglia solamente.
    E s'Amore è distretta volontate,
    per Deo, madonna, in ciò considerate 20
    c'Amor non prende visibolemente,
    ma par che nasca naturalemente;
    e poi c'Amore è cosa naturale,
    merzè dovete aver de lo mio male.
    De lo meo male, ch'è tanto amoroso, 25
    da poi ch'è così nato,
    non mi dispero, ma spero alegranza:
    c'a la fine sereno dilet[t]oso
    vene tempo turbato;
    per ch'io conforto la mia 'namoranza. 30
    E fin c'Amore, usando dirit[t]ura,
    di voi, donna avenente, mi 'namura,
    voglio essere di voglia soferente;
    chè più de' l'omo avere alegramente
    [di] molta cosa sola intenz[ï]one, 35
    che di piciola gioia possessione.
    D'alta possessione e gioia plagente
    [eo] son posseditori,
    avendo solamente alta speranza;
    la quale à tal natura interamente, 40
    c'a li maior furori
    magiormente sovene e d[à] alegranza.
    Ch'io so ch'io falleria vil[l]anamente
    se no sperasse in voi complitamente.
    Da poi c'Amor vi diede ogni belleze 45
    finalemente e tut[t]e avenanteze,
    ben so che troveragio in voi pietanza,
    per ch'io vivo gioioso 'n allegranza.




    Sei anni ò travagliato

    Sei anni ò travagliato
    in voi, madonna, amare,
    e fede v'ò portato
    più assai che divisare,
    nè dire vi por[r]ia; 5
    ben ò caro acat[t]ato
    lo vostro inamorare,
    che m'à così ingan[n]ato
    con suo dolze parlare,
    chi già no 'l mi credia. 10
    Ben mi menò follia
    di fantin veramenti,
    che crede fermamenti
    pigliar lo sole ne l'agua splendienti,
    e stringere si crede lo splendore 15
    de la candela ardenti,
    ond'ello inmantenenti
    si parte e piange sentendo l'ardore.
    S'eo tardi mi so adato
    de lo meo follegiare, 20
    tegnomene beato,
    per ch'io sono a lasciare
    lo mal che mi stringìa;
    chè l'omo ch'è malato,
    poi che torna in sanare, 25
    lo male c'à passato
    e lo gran travagliare
    tut[t]o met[t]e in obria.
    Oi lasso, ch'io credia,
    donna, perfettamenti 30
    che vostri affetamenti
    pasassero giacinti stralucenti!
    Or vegio ben che l[o] vostro colore
    di vetro è fermamenti,
    chè sanno sagiamenti 35
    li mastri contrafare lo lavore.
    Speranza m'à 'ngan[n]ato
    e fatto tanto er[r]are,
    com'omo c'à giucato
    e crede guadagnare 40
    e perde ciò c'avia.
    Or vegio ch'è provato
    zo c'audo contare,
    c'assai à guadagnato
    chi si sa scompagnare 45
    da mala compagnia.
    A meve adivenia,
    como avene soventi
    chi 'mpronta buonamenti
    lo suo a mal debitore e scanoscenti: 50
    in per ciò c'al malvagio pagatore
    vaci omo spessamenti
    e non pò aver neienti,
    ond'a la fine ne fa richiamore.


    [continua...]
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    Jacopo Mostacci

    Secondo la rubrica del canzoniere Palatino Jacopo Mostacci nacque a Pisa, ma un'altra ipotesi, più accreditata, lo considera nativo di Messina e successivamente esule in Abruzzo.

    Falconiere ufficiale di Federico II (1240), fu ambasciatore in Aragona per conto di Manfredi, figlio di Federico II, nel 1262.
    È autore di quattro canzoni di gusto arcaico e provenzaleggiante, conservate nel manoscritto Vaticano Latino 3793 tra le opere di Rinaldo d'Aquino e Cielo d'Alcamo; in esse dominano i motivi convenzionali del timore per la perdita dell'amore e della necessità di nascondere il proprio sentimento.

    Questi sono gli incipit:

    * Amor ben veio che mi fa tenire
    * A pena pare ch'io saccia cantare
    * Umile core e fino e amoroso
    * Mostrar vorria in parvenza

    Partecipò anche ad una tenzone poetica sulla natura e origine di Amore con Giacomo da Lentini e Pier delle Vigne composta da:

    1. Sollicitando un poco meo savere di Iacopo Mostacci
    2. Però ch'amore non si pò vedere di Pier della Vigna
    3. Amore è uno desio che ven da' core di Iacopo da Lentini


    [continua...]
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    Percivalle Doria

    Percivalle Doria (Genova, 1195 circa - Arrone, 1264) è stato un condottiero, il vicario generale di Re Manfredi per la marca di Ancona e il ducato di Spoleto e poi per la Romagna e un poeta seguace dei trovatori provenzali e della scuola siciliana.
    Molto probabilmente faceva parte della ricca famiglia genovese dei Doria, anche se c'è chi sostiene che il cognome fosse originariamente D'Oria, cioè da Otranto. Tra il 1228 e il 1243 assunse la carica di podestà in alcune città provenzali e dell'Italia settentrionale. Poi venne arruolato dal re Manfredi di Sicilia, che nel 1255 lo nominò vicario generale di Ancona e Spoleto e nel 1258 della Romagna.

    Intanto, i rapporti tra il figlio di Federico II e papa Urbano IV si inasprirono. Percivalle dovette così mettere a ferro e fuoco Spoleto nel 1259 e cinque anni dopo, partito con un piccolo esercito di musulmani e tedeschi, accorse in aiuto del suo re contro Carlo I d'Angiò. In quest'ultima occasione, mentre passava il fiume Nera presso Arrone, morì annegato con il suo cavallo.
    Già prima di venire a contatto con Manfredi, Percivalle Doria scriveva canzoni in provenzale. Per quanto riguarda i testi in siciliano (tradotti poi in fiorentino), rimangono solo Amor m'ave priso e Come lo giorno quando è al mattino, tramandati dal manoscritto Vaticano Latino 3793.



    Amor m'ave riso


    Amore m'a[ve] priso
    e miso m'à 'n balìa
    d'alto mare salvagio;
    posso ben, ciò m'è aviso,
    blasmar la segnoria,
    che già m'à fatto oltragio,
    chè m'à dato a servire
    tal donna, che vedire,
    nè parlar non mi vole,
    onde mi grava e dole
    si duramente - ca, s'io troppo tardo,
    consumerò ne lo doglioso sguardo.

    Pecato fece e torto
    Amor, quando sguardare
    mi fece la più bella,
    che mi dona sconforto
    quando degio alegrare,
    tanto m'è dura e fella.
    Ed io per ciò non lasso
    d'amarla, oi me lasso;
    tale mi mena orgoglio
    asai più che non soglio,
    sì coralmente - eo la disio e bramo:
    Amor m'à preso come il pesce a l'amo.

    Eo son preso di tale
    che non m'ama neiente
    ed io tut[t]or la servo;
    nè 'l servir non mi vale,
    nè amar coralemente.
    Dunque aspetto, ch'io servo
    sono de la megliore
    e seraio con amore
    d'amare meritato
    . . . [-ato]
    . . . [-ente] - che lo servir non vaglia,
    eo moragio doglioso sanza faglia.


    [continua...]
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    Tommaso di Sasso

    Tommaso di Sasso (Messina, XIII secolo) è uno dei tanti nomi di poeti della Scuola siciliana a cui si possono attribuire dei componimenti poetici ma non una biografia con dei tratti degni di nota.
    Ha composto due canzoni, L'amoroso vedere e D'amoroso paese.

    L'amoroso vedere


    L'amoroso vedere
    m'à miso a rimembranza
    com'io già lungiamente
    a l'avenente - ò tanto ben voluto;
    ch'eo non por[r]ia tacere 5
    la gioia e l'alegranza
    che mi dona sovente:
    allegramente - son da lei veduto.
    A ciò mi riconforto
    e merzede le chero, 10
    c'a sè m'acolga sanza dimoranza:
    per ch'io non fusse morto,
    lo suo visagio altero
    mi si mostra piagente per pietanza.

    Grande d'amor pietanza 15
    l'à toccato a lo core,
    e, secondo ch'eo crio,
    con gran disio - l'à fatta rimembrare
    la dolze inamoranza
    e lo suo servidore, 20
    lo mal che soferio
    e non partio - già mai per spaventare.
    Ma s'ell'à, rimembrando,
    l'amoroso vedere,
    null'altra cosa fecila pietosa, 25
    ma quando al suo comando
    mi le dona a servire
    e vita assai sofersi ed angosciosa.

    Ancora si asomata
    la natura v'avesse, 30
    ben vi dia rimembrare
    ca di mal fare - è troppo gran peccato.
    Molto fora spietata
    donna c'omo aucidesse:
    ben por[r]ia ragionare, 35
    ca ciò mendare - non este a nullo dato.
    Ma voi pur m'aucidete,
    se voi piu mi spreiate,
    e poi null'altro mi potete fare,
    ad[d]osso mi venite, 40
    piangete e lagrimate,
    pregate Dio che m'agia a perdonare.

    Bella, per grande orgoglio
    de la vostra fiereza,
    miso di fin'amanza 45
    in disperanza - fune molte fiate;
    a zo ch'i' avere soglio
    de la vostra belleza,
    Amor mi dia certanza
    con allegranza - piena di pietate. 50
    Non mi siate più fera,
    mettendomi a le pene
    onde m'à sormontato con valenza!
    Chè l'omo, poi dispera,
    de la sua buona spene 55
    e d[e] [ l' ]amore veneli temenza.





    D'amoroso paese


    D'amoroso paese
    sospiri e dolzi planti m'à mandato
    Amor, che m'à donato - a donna amare;
    mai senza sospirare
    Amore me no lascia solo un'ura. 5
    Deo, che folle natura - ello m'aprese!
    ch'io non saccio altro fare,
    se non penzare; - e quanto più mi sforzo,
    allora meno pozo - avere abenti;
    e uscito m'è di menti 10
    già lungiamenti - ogn'altro penzamento,
    e s'io veglio o dormento - sent'amore.

    Amore sento tanto,
    donna, ch'io altro [ che penzar ] non faccio;
    son divenuto paccio - troppo amando. 15
    Moro considerando
    che sia l'amore che tanto m'allaccia:
    non trovo chi lo saccia, - ond'io mi scanto;
    chè vicino di morte
    crudel' e forte - mal che non à nomo, 20
    che mai non lo pote omo - ben guerire.
    Dunque pur vorria dire
    come sentire - amor mi fa tormento,
    forse per mio lamento - lo mi lascia.

    Amor mi face umano 25
    umile, curucioso, sollazante,
    e per mia voglia amante - amor negando.
    E medica piagando
    Amore, che nel mare tempestoso
    navica vigoroso, - e ne lo chiano 30
    teme [la] tempestate.
    Folli, sacciate: - finchè l'amadore
    disia, vive 'n dolore; - e poi che tene,
    credendos' aver bene,
    dàgli Amor pene; - sperando d'aver gioia, 35
    la gelosia è la noia - che l'asale.

    Amor mi fa fellone
    e leale, sfacciato e vergognoso;
    quanto più son doglioso, - alegro paro,
    e non posso esser varo: 40
    da poi che cristallo aven la neve,
    squagliare mai non deve - per ragione.
    Così eo che no rifino,
    son poco mino - divenuto a muru:
    aigua per gran dimuru - torna sale. 45
    Cotal doglia mortale,
    gravoso male, - da meve stesso è nato,
    che non aio nullo lato - che non ami.

    Poi ch'i' sì lungiamente
    agio amato, già mai non rifinai, 50
    tardi mi risvegliai - a disamare,
    chè non si può astutare
    così sanza fatica uno gran foco;
    ma consuma lo foco? - per neiente.
    Dunque, como faragio? 55
    Bene ameragio; - ma saver vor[r]ia
    che fera segnoria - mi face amare;
    chè gran follia mi pare
    omo inorare - a sì folle segnore,
    c'a lo suo servidore - non si mostra. 60


    [continua...]
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    Compagnetto da Prato

    Il manoscritto Canzoniere Vaticano latino 3793 ha conservato due canzoni di quest'autore:

    * L'amor fa una donna amare
    * Per lo marito c'ò rio

    L'amor fa una donna amare


    L'amor fa una donna amare.
    Dice: «Lassa, com faragio?
    Quelli a cui mi voglio dare
    non so se m'à 'n suo coragio.
    5Sire Dio, che lo savesse
    ch'io per lui sono al morire,
    o c'a donna s'avenesse:
    manderia a lui a dire
    che lo suo amor mi desse.
    10Dio d'amor, quel per cui m'ài
    conquisa, di lui m'aiuta;
    non t'è onor s'a lui non vai,
    combatti per la renduta.
    Dio! l'avessero in usanza
    15l'altre di 'nchieder d'amare!
    ch'io inchiedesse lui d'amanza,
    chè m'à tolto lo posare;
    per lui moro for fallanza.
    Donne, no 'l tenete a male,
    20s'io danneo il vostro onore,
    chè 'l pensier m'à messa a tale
    convenmi inchieder d'amore.
    Manderò per l'amor mio,
    saprò se d'amor mi 'nvita;
    25se non, gliela dirabo io
    la mia angosciosa vita.
    Lo mio aunore non disio».
    «Madonna, a vostre belleze
    non era ardito di 'ntendre;
    30non credea che vostre alteze
    ver me degnassero iscendre.
    A voi mi do, donna mia,
    vostro son, mio non mi tegno,
    mio amor coral in voi sia;
    35fra tut[t]o, senza ritegno
    met[t]omi in vostra balìa».
    «Deo! como mi fa morire
    l'omo a cui mandai il mesagio!
    Domandomi che vuol dire.
    40Quando in zambra meco l'agio
    non me ne de' domandare.
    Drudo mio, aulente più c'ambra,
    ben ti dovresti pensare
    perch'i' òti co meco in zambra;
    45sola son, non dubitare».
    «Dim[m]i s'è ver l'abraz[z]are
    che mi fai, donna avenente,
    chè sì gran cosa mi pare,
    creder no 'l posso neiente».
    50«Drudo mio, se Dio mi vaglia
    ch'io del tuo amor mi disfaccio,
    merzè, non mi dar travaglia!
    Poi che m'ài ignuda in braccio,
    meo sir, tenemi in tua baglia!».






    Per lo marito c'ò rio

    «Per lo marito c'ò rio
    l'amor m'è 'ntrato in coragio;
    sollazo e gran bene ag'io
    per lo mal che con lui agio:
    5ca per lo suo lacerare
    tal penser'ò [e]o no l'avia,
    chè sono presa d'amare,
    fin'amante agio in balia,
    che 'n gran gioia mi fa stare.
    10Geloso, bat[t]uta m'ài,
    piaceti di darmi doglia,
    ma quanto più mal mi fai,
    tanto il mi metti più in voglia.
    Di tal uom mm'acagionasti,
    15c'amanza no avea intra nui,
    ma da che 'l mi ricordasti
    l'amor mi prese di lui;
    lo tuo danagio pensasti.
    Mio amor mi mette a ragione;
    20dice s'io l'amo a cor fino
    però che m'abe a cascione
    ch'era nel male dimino.
    Per ira del mal marito
    m'avesti, e non per amore;
    25ma da che m'ài, sì mi [è] gito
    tuo dolzor dentro dal core,
    mio male in gioi m'è ridito.
    Drudo mio, a te mi richiamo
    d'una vechia c'ò a vicina;
    30ch'ella s'è acorta ch'io t'amo,
    del suo mal dir no rifina.
    Con molto airoso talento
    m'ave di te gastigata;
    met[t]emi a magior tormento
    35che quel cui son rnaritata;
    non mi lascia avere abento».
    «Madonna, per lo tuo onore
    a nulla vechia non credere
    ch'elle guer[r]ïan l'amore,
    40per altri loro non credere.
    Le vechie son mala gente,
    non ti lasciar dismagare
    che 'l nostro amor fino e gente
    per lor non possa falzare.
    45Met[t]ale Dio in foco arzente!»
    La bella dice: «Par Deo,
    giurolti per mia leanza
    che non è cosa per ch'eo
    lasciasse la tu' amistanza.
    50Ma perch'io mi ti lamento
    d'una mia disaventura,
    non aver tu pensamento
    che d'altr'amore agio cura,
    se non far tuo piacimento.»



    [continua...]
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    00 14/08/2007 14:52
    Paganino da Serzana


    Paganino da Serzana o da Sarzana (Sarzana?, XIII secolo), poeta della scuola siciliana, scrisse la canzone Contra lo meo volere conservata dal manoscritto Vaticano Latino 3793.
    Probabilmente conobbe Federico II nel 1226, in occasione del passaggio dell'imperatore da Sarzana.

    La sua provenienza è comunque poco chiara. Serzana dovrebbe corrispondere al paese in provincia della Spezia, ma c'è chi sostiene che il poeta potesse provenire da Sarezzano (Alessandria) o da Serrazzano, frazione del comune di Pomarance (Pisa).


    Contra lo meo volire

    Contra lo meo volire
    Amor mi face amari
    donna di grande affari - troppo altera,
    perchè lo meo servire
    non mi por[r]ia aiutari 5
    ver lo suo disdegnari - tant'è fera;
    chè la sua fresca ciera
    già d'amar non s'adotta,
    nè giorno non anotta - là du pari.
    Dunqua, s'agio provato 10
    li affanni e li martiri,
    c'Amor face sentiri - a chi gli è dato,
    d'Amor prendo cumiato - e vòi partiri.
    Lo partir non mi vale,
    c'adesso mi riprende 15
    Amor, chi non m'afende - poi li piace;
    ca tutto lo meo male
    di gran gioi si riprende,
    s'ello ver me s'arrende - ed amar face
    pur uno poco in pace 20
    la mia piacente donna,
    c'amor di bona donna - non discende.
    Però s'a lei piacisse
    d'amar, eo l'amaria:
    co meco partiria - lo mal c'avisse, 25
    e, poi lo mal sentisse, - lo ben vorria.
    Sì com'omo distritto,
    che non pote fuggire,
    conveneli seguire - l'altrui voglia,
    mi tene Amore afritto, 30
    che mi face servire,
    ed amando gradire - u' pur m'orgoglia
    madonna, che mi spoglia
    di coraggio e di fede.
    Ma s'ella vol merzede - consentire, 35
    tutto lo meo corrutto
    serà gioi e dolzore;
    ma più li fora onore, - s'a postutto
    mi tornasse in disdutto - di bon core.
    Ai! placente persona, 40
    ciera allegra e benigna
    di tutte altezze digna - e d'onore!
    Ciascun omo ragiona:
    quella donna disligna
    che merzede disdigna - ed amore. 45
    Dunqua, vostro valore
    e mercede mi vaglia,
    ca foco mi travaglia - che non spigna;
    e vostra caunoscenza
    ver mi d'amor si 'nflame 50
    e a ciò me richiame - benvolenza,
    avendo al cor sofrenza - ch'io l'ame.
    Quando fra dui amanti
    Amore igualemente
    si mostra benvolente, - nasce[n] bene 55
    di quello amore manti
    piaceri und'omo sente
    gioi a lo cor parvente - e tutto bene.
    Ma s'ello pur si tene
    ad uno e l'altro lassa, 60
    quello, penando, attassa - ed è soffrente
    del mal d'amor gravoso
    pieno di disïanza
    e vive in disperanza - vergognoso.
    Dunqua, s'eo son dottoso - non è infanza. 65
    Mercè, donna gentile,
    a cui piacer aspetto,
    vostro senno perfetto - mi conforte
    e per me non s'avile
    tenendomi in dispetto, 70
    ch'io non aio rispetto - de la morte,
    e ciò mi piace forte,
    solo c'a voi non sia
    ritratto a villania - per sospetto;
    ca, se voi m'aucidete, 75
    ben diria Paganino:
    «troppo for'al dichino, - ben savete,
    l'alto preio che tenete - in dimino».


    [continua...]
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    00 14/08/2007 14:56
    Jean de Brienne

    Su di lui tornerò più tardi. Personaggio importante riguardo al trono di Gerusalemme...


    Giovanni de Candia, conte di Brienne (circa 1148 - Costantinopoli, 23 marzo 1237) fu il re di Gerusalemme dal 1210 al 1225 e imperatore dell'Impero latino tra il 1228 e la morte.
    Figlio secondogenito di Erardo III di Brienne, nel 1205 si arruolò per partecipare alla quarta crociata. Come cavaliere si guadagnò la stima di Papa Innocenzo III e di re Filippo II di Francia, che lo designarono re di Gerusalemme e lo fecero sposare con Maria di Monferrato (figlia di Corrado del Monferrato e Isabella d'Angiò). Nel 1210 venne incoronato a Tiro.

    Guidò una spedizione contro l'Egitto durante la quinta crociata: nel 1219 conquistò Damietta, ma nel 1222 dovette condurre delle trattative di pace con il sultano che vinse la guerra. Nel 1225, in cerca di aiuto per le sue campagne, diede in sposa sua figlia Jolanda a Federico II.

    Federico II, però, nel 1229 si autoproclamò re di Gerusalemme e cercò di accordarsi con il sultano d'Egitto. Papa Gregorio IX, suo acerrimo nemico, mise Giovanni di Brienne a capo del suo esercito contro l'imperatore, ma il cavaliere perse a Capua. Dopo la sconfitta, venne eletto imperatore dell'Impero latino di Costantinopoli con Baldovino II. Quindi combatté vittoriosamente contro i bulgari e contro i greci di Nicea.

    Giovanni di Brienne è anche un esponente della Scuola siciliana di Federico II. È stato conservato un discordo, Donne audite amore, nel quale il cavaliere tratta raffinatamente il tema amoroso con delle forme comunque popolari.


    Donna, audite como

    Donna, audite como
    mi tegno vostro omo
    e non d'altro segnore.
    La mia vita fina
    voi l'avete in dot[t]rina 5
    ed in vostro tenore.
    Oi chiarita spera!
    la vostra dolze ciera
    de l'altr[e] è genzore.
    Così similemente 10
    è lo vostro colore:
    color non vio sì gente
    nè 'n tinta, nè 'n fiore;
    ancor la fior sia aulente,
    voi avete il dolzore. 15
    Dolze tempo e gaudente
    inver la pascore!
    ogn'om che ama altamente
    si de' aver bon core
    di cortese e valente 20
    e le[a]l servitore
    inver donna piagente,
    cui ama a tut[t]ore.
    Tut[t]ora de' guardare
    di fare fallanza 25
    chè non è da laudare
    chi non à leanza,
    e ben de' om guardare
    la sua [o]noranza.
    Certo be[n] mi pare 30
    che si facca blasmare
    chi si vuole orgogliare
    là ove non à possanza.
    E chi ben vuol fare,
    sì si de' umiliare 35
    inver sua donna amare
    e fare conoscanza.
    Or venga a rid[d]are
    chi ci sa [ben] andare,
    e chi à intendanza 40
    si degia allegrare
    e gran gioia menare
    per [sua] fin[a] amanza;
    chi no lo sa fare,
    non si facca blasmare 45
    di trarersi a danza.
    Fino amor m'à comandato
    ch'io m'allegri tut[t]avia,
    faccia sì ch'io serva a grato
    a la dolze donna mia, 50
    quella c'amo più 'n celato
    che Tristano non facia
    Isotta, como cantato,
    ancor che li fosse zia.
    Lo re Marco era 'nganato 55
    perchè 'n lui si confidia:
    ello n'era smisurato
    e Tristan se ne godia
    de lo bel viso rosato
    ch' Isaotta blond' avia: 60
    ancor che fosse pecato,
    altro far non ne potia,
    c'a la nave li fui dato
    onde ciò li dovenia.
    Nullo si facca mirato 65
    s'io languisco tut[t]avia,
    ch'io sono più 'namorato
    che null'altro omo che sia.
    Perla, fior de le contrate,
    che tut[t]e l'altre passate 70
    di belleze e di bontate,
    donzelle, or v'adornate,
    tut[t]e a madon[n]a andate
    e mercede le chiamate,
    che di me agia pietate; 75
    di que', ch'ell'à, rimembranza
    le degiate portare;
    già mai 'n altra ['n]tendanza
    non mi voglio penare,
    se no 'n lei per amanza, 80
    chè lo meglio mi pare.
    Dio mi lasci veder la dia
    ch'io serva a madonna mia
    a piacimento,
    ch[e] io servire le vor[r]ia 85
    a la fiore di cortesia
    e insegnamento.
    Meglio mi tegno per pagato
    di madonna,
    go che s'io avesse lo contato 90
    di Bologna
    e la Marca e lo ducato
    di Guascogna.
    E le donne e le donzelle
    rendano le lor castelle 95
    senza tinere.
    Tosto tosto vada fore
    chi non ama di bon core
    a piacere.


    [continua...]
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    00 14/08/2007 18:47
    Al momento non ho trovato altro materiale sulla Scuola siciliana, quindi tornerei a parlare della crociata di Federico avendo trovato altro materiale su questo argomento.





    Per ora aggiungo queste due immagini di carte geografiche del Mediterraneo. Ho notato che in quasi tutti i libri di storia, anche molti manuali, mancano spesso le cartine di riferimento, ed è una cosa insopportabile, visto che non tutti conosciamo l'atlante a memoria [SM=g8286]!
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