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Cielo D'Alcamo


Cielo d'Alcamo fu un poeta nato nella prima
metà del XIII secolo, uno dei più significativi
rappresentanti della poesia popolare giullaresca.

Egli scrisse un contrasto in dialetto meridionale
dal titolo Rosa fresca aulentissima, che è un vero
esempio di mimo giullaresco, destinato alla
rappresentazione scenica.

Non si sa chi fosse esattamente questo poeta. Anche
il nome è incerto, per alcuni fu Ciullo (diminutivo
di Vincenzullo o richiamo volgare e grottesco tipico
nei nomi giullareschi), per altri Cheli (diminutivo
di Michele, nome molto diffuso in Sicilia), da cui
sarebbe poi derivato Celi e in seguito, in Toscana,
Cielo. Incerto anche il secondo nome, d'Alcamo (da
Alcamo cittadina Siciliana), Dal Camo, Dalcamo.

Dall'analisi del testo si può dedurre in base agli
elementi linguistici, che l'autore fosse siciliano
e non sprovvisto di cultura.

La data invece della composizione, cade tra il 1231
e il 1250, nel periodo che va dalla promulgazione
delle Costituzioni Melfitane e l'anno di morte di
Federico II. Questa data si ricava dai riferimenti
fatti nei versi 21-25 di Rosa fresca aulentissima:




I

«Rosa fresca aulentisima ch'apari inver' la state

le donne ti disiano, pulzell' e maritate;

tràgemi d'este focora, se teste a bolontate;

per te non ajo abento notte e dia,

penzando pur di voi, madonna mia.»



II

«Se di meve trabàgliti, follia lo ti fa fare.

Lo mar potresti arompere, a venti asemenare,

l'abere d'esto secolo tut[t]o quanto asembrare

avere me non pòteri a esto monno;

avanti li cavelli m'aritonno.»



III

«Se li cavelli arton[n]iti, avanti foss'io morto,

ca'n isi [sì] mi pèrdera lo solacco e 'l diporto .

Quando ci passo e véjoti, rosa fresca de l'orto,

bono conforto donimi tut[t]ore:

poniamo che s'ajunga il nostro amore.»



IV

«Ke 'l nostro amore ajùngasi, non boglio m'atalenti:

se ci ti trova paremo cogli altri miei parenti,

guarda non t'argolgano questi forti cor[r]enti.

Como ti seppe bona la venuta,

consiglio che ti guardi a la partuta.»



V

«Se i tuoi parenti trova[n]mi, e che mi pozzon fare?

una difensa mèt[t]oci di dumili' agostari:

non mi tocara pàdreto er quanto avere ha 'n Bari.

Viva lo 'mperadore, graz[i'] a Deo!

Intendi, bella, quel che ti dico eo? (1)




VI

«Tu me no lasci vivere né sera né maitino.

Donna mi so' di pèrperi, d'auro massamotino.

Se tanto aver donàssemi quanto ha lo Saladino,

e per ajunta quant'ha lo soldano,

tocare me non pòteri a la mano.»



VII

«Molte sono le femine c'hanno dura la testa,

e l'orno con parabole l'adimina e amonesta:

tanto intorno procàzzala fin ch'ell' ha in sua podesta.

femina d'orno non si può tenere:

guàrdati, bella, pur de ripentere.»





VIII

«K'eo ne [pur ri]pentésseme? davanti foss'io aucisa

ca nulla bona femina per me fosse ripresa!

[A]ersera passàstici, cor[r]enno a la distesa.

Aquìstati riposa, canzoneri:

le tue parole a me non piacion gueri.»



IX

«Quante sono le schiantora che m'ha' mise a lo core,

e solo purpenzànnome la dia quanno vo fore!

Femina d'esto secolo tanto non amai ancore

quant'amo teve, rosa invidiata:

ben credo che mi fosti distinata.»



X

«Se distinata fosseti, caderia de l'altezze,

ché male messe fòrano in teve mie bellezze.

Se tut[t]o adivenìssemi, tagliàrami le trezze;

e consore m'arenno a una magione,

avanti che m'artochi 'n la persone.»



XI

«Se tu consore arènneti donna col viso cleri,

a lo mostero vènoci e rènnoti confleri:

per tanta prova vencerti fàralo volonteri.

Conteco stao la sera e lo maitino:

besogn'è ch'io ti tenga al mio dimino.»



XII

«Boimé tampina misera, com'ao reo distinato!

Geso Cristo l'altissimo del tut[t]o m'è airato:

concepìstimi a abàttare in omo blestiemato.

Cerca la terra ch'este gran[n]e assai,

chiù bella donna di me troverai.»



XII

«Cercat'ajo Calabr['i]a, Toscana e Lombardia,

Puglia, Costantinopoli, Genoa, Pisa e Soria,

Lamagna e Babilonia [e] tut[t]a Barberia:

donna non [ci] trovai tanto cortese,

per che sovrana di meve te prese.»



XIV

«Poi tanto trabagliàsti[ti], fac[ c]ioti meo pregheri

che tu vadi adomàn[n]imi a mia mare e a mon peri,

Se dare mi ti degnano, menami a lo mosteri,

e sposami davanti da la jente;

e poi farò le tuo comannamente.»



XV

«Di ciò che dici, vitama, neiente non ti bale,

ca de le tuo parabole fatto n'ho ponti e scale.

Penne penzasti met[t]ere, sonti cadute l'aIe;

e dato t'ajo la bolta sot[t]ana.

Dunque, se po[t]i, téniti villana.»



XVI

«En paura non met[t]ermi di nullo manganiello:

istòmi 'n esta groria d'esto forte castiello;

prezzo le tue parabole meno che d'un zitello.

Se tu no levi e va'tine di quaci,

se tu ci fosse morto, ben mi chiaci.»



XVII

«Dunque vor[r]esti, vitama, ca per te fosse strutto?

Se morto essere déboci od intagliato tut[t]o,

di quaci non mi mòsera se non ai de lo frutto

lo quale stao ne lo tuo jardino:

disiolo la sera e lo matino.»



XVIII

«Di quel frutto non àb[b ]ero conti né cabalieri;

molto lo dis'ia[ro]no marchesi e justizieri,

avere no'nde pòttero: gir' onde molto feri.

Intendi bene ciò che bol[io] dire?

men'este di mill'onze lo tuo abere.»



XIX

«Molti so' li garofani, ma non che salma 'nd'ài:

bella, non dispregiàremi s'avanti non m'assai.

Se vento è in proda e gìrasi e giungeti a le prai,

arimembrare t'ao [e]ste parole,

ca de[n]tr'a 'sta animella assai mi dole.»



XX

«Macara se dolèeti che cadesse angosciato:

la gente ci cor[r]esoro da traverso e da llato;

tut[t]'a meve dicessono: ' Acor[r] esto malnato'!

Non ti degnara porgere la mano

per quanto avere ha 'l papa e lo soldano. »



XXI

«Deo lo volesse, vìtama, te fosse morto in casa!

L'arma n'anderia cònsola, ca dì e notte pantasa.

La jente ti chiamàrano: 'Oi perjura malvasa,

c'ha' morto l'omo in càsata, traìta!'

Sanz'on[n]i colpo lèvimi la vita.»



XXII

«Se tu no levi e va'tine co la maladizione,

li frati miei ti trovano dentro chissa magione.

[...] be.llo mi sof[f]ero pérdici la persone

ca meve se' venuto a sormontare;

parente néd amico non t'ha aitare.»



XXIII

«A meve non aìtano amici né parenti:

istrani' mi so', càrama, enfra esta bona jente.

Or fa un anno, vìtama, che 'ntrata mi se' ['n] mente.

Di canno ti vististi lo maiuto,

bella, da quello jorno so' feruto.»



XXIV

«Di tanno 'namoràstiti, [tu] Iuda lo traìto,

como se fosse porpore, iscarlato o sciamito?

S'a le Va[n]gele jùrimi che mi si' a marito,

avere me non pòter'a esto monno:

avanti in mare [j]ìt[t]omi al perfonno.»



XXV

«Se tu nel mare gìt[t]iti, donna cortese e fina,

dereto mi ti mìsera per tut[t]a la marina,

[e da] poi c'anegàseti, trobàrati a la rena

solo per questa cosa adimpretare:

conteco m'ajo agiungere a pecare.»



XXVI

Segnomi in Patre e 'n Filio ed i[n] santo Mat[t]eo:

so ca non ce' tu retico [o] figlio di giudeo,

e cotale parabole non udi' dire anch'eo.

Morta si [è] la femina a lo 'ntutto,

pèrdeci lo saboro e lo disdotto.»



XXVII

«Bene lo saccio, càrama: altro non pozzo fare.

Se quisso non arcòmplimi, làssone lo cantare.

Fallo, mia donna, plàzzati, ché bene lo puoi fare.

Ancora tu no m'ami, molto t'amo,

sì m'hai preso come lo pesce a l'amo.»



XXVIII

«Sazzo che m'ami, [e] àmoti di core paladino.

Lèvati suso e vatene, tornaci a lo matino.

Se ciò che dico fàcemi, di bon cor t'amo e fino.

Quisso t'[ad]imprometto sanza faglia:

te' la mia fede che m'hai in tua baglia.»



XXIX

«Per zo che dici, càrama, neiente non mi movo.

manti pren[n]i e scànnami: tolli esto cortel novo

Esto fatto far pòtesi inanti scalfi un uovo.

Arcompli mi' talento, [a]mica bella,

ché l'arma co lo core mi si 'nfella.»



XXX

«Ben sazzo, l'arma dòleti, com'omo ch'ave arsura.

Esto fatto non pòtesi per null' altra misura:

se non ha' le Vangele, che mo ti dico 'jura',

avere me non puoi in tua podesta;

inanti pren[n]i e tagliami la testa.»



XXXI

«Le Vangele, càrama? ch'io le porto in seno:

a lo mostero présile (non ci era lo patrino).

Sovr' esto libro jùroti mai non ti vegno meno.

Arcompli mi' talento in caritate,

ché l'arma me ne sta in sut[t]ilitate.»



XXXII

«Meo sire, poi juràstimi, eo tut[t]a quanta incenno.

Sono a la tua presenza, da voi non mi difenno.

S'eo minespreso àjoti, merzé, a voi m'arenno.

A lo letto ne gimo a la bon' ora,

ché chissa cosa n'è data in ventura.»


Uno dei riferimenti a cui si allude riguarda
la parola "agostari" che era una multa
altissima perché gli agostari, o
augustali erano delle monete d'oro coniate
nel 1231 che valevano un fiorino e un quarto.

Secondo una legge contenuta nelle Costituzioni
Melfitane, emanate da Federico II nel 1231 si
poteva fermare l'aggressore pronunciando il nome
dell'imperatore e indicando la multa che
l'aggressore avrebbe dovuto pagare se avesse
fatto uso della violenza. Questo accenno è molto
importante ai fini della datazione del contrasto.

Il contenuto del componimento è quello tipico
nella rimeria giullaresca: si tratta di un dialogo
tra una ragazza del popolo e un giullare sfacciato
che le offre con enfasi il suo amore, a tratti con
parole svenevoli, a tratti con parole da trivio.
La ragazza dapprima rifiuta motteggiando e infine
finisce con il capitolare.

Si tratta evidentemente di un mimo giullaresco,
secondo alcuni anche recitato e accompagnato dalla
musica, dove la rappresentazione dei caratteri è
arguta e pur essendo comica non è caricaturale.

Il contrasto è nell'insieme la riproduzione d'uno
schema frequente nella letteratura popolare fatta da
uno scrittore non incolto e dotato di notevoli
qualità artistiche.

Nella V strofa (evidenziata in rosso) l'autore si
riferisce con ironia ad una legge emanata da
Federico II nell'ambito di alcune norme dettate
in favore delle donne. In particolare la disposizione
stabiliva che una donna molestata non fosse obbligata
ad un matrimonio riparatore (che in pratica, poteva
ritenersi una condanna anche per la donna oltraggiata),
ma doveva essere punito solo il molestatore col pagamento
di un'ammenda. Lodevole iniziativa quella dell'Imperatore,
dettata certamente da buone intenzioni e da una mentalità
aperta e moderna, ma, di fatto, si rivelò una sorta
di immunità per i cattivi soggetti, specie quelli
abbienti. Essi potevano permettersi di pagare senza
che la cosa pesasse sulle loro finanze, o, meglio,
grazie alla loro influenza e potere, riuscivano a
non farsi comminare neppure la multa.
[Modificato da Bag End 10/08/2007 19:32]
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"I always hope for the best. Experience, unfortunately, has taught me to expect the worst."
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