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Stefano Protonotaro



Stefano Protonotaro da Messina fu uno scrittore appartenente alla Scuola siciliana identificabile con uno Stefano da Messina che tradusse dal greco in latino e dedicò due trattati arabi di astronomia a Manfredi, figlio di Federico II.

Di tutti i componimenti appartenenti alla Scuola Siciliana quello di Protonotaro è l'unico ad esserci pervenuto interamente in lingua siciliana dal momento che le rime della scuola, a causa della grande diffusione che ebbero nel resto della penisola, ci sono giunte in codici toscani e pertanto trascritte in lingua toscanizzata.

La canzone di Protonotaro ci è giunta attraverso un filologo del Cinquecento, Giovanni Maria Barbieri, che la copiò da un codice che andò in seguito perduto.

La canzone pervenutaci è pertanto un rarissimo esempio di siciliano illustre, cioè del linguaggio che i seguaci colti di Federico elaborarono attraverso il raffinamento della lingua parlata e comune, rendendo più regolari certe forme e introducendo il lessico tecnico della poesia d'amore provenzale.

La canzone ha un metro con stanze unissonans, cioè formata da due piedi identici (abC) e sirma dDEeFF al quale segue, secondo il modo provenzale, una tornada o congedo di struttura uguale alla sirma.

Nel vocalismo della prima stanza della celebre canzone si può notare la base siciliana-comune.

Il siciliano ha infatti un sistema a cinque vocali che, a differenza del toscano, non fa distinzione fra le due e e le due o, mentre il toscano dispone di sette vocali.

Accade così che quasi tutto quello che conosciamo della produzione siciliana ci si presenta sotto una forma diversa da quella così caratteristica della canzone Pir meu cori alligrari.


Pir meu cori allegrari

Pir meu cori allegrari,
chi multu longiamenti
senza alligranza e joi d'amuri è statu,
mi ritornu in cantari,
ca forsi levimenti 5
da dimuranza turniria in usatu
di lu troppu taciri;
e quandu l'omu à rasuni di diri,
ben di' cantari e mustrari alligranza,
ca senza dimustranza 10
joi siria sempri di pocu valuri;
dunca ben di' cantari onni amaduri.
E si per ben amari
cantau juiusamenti
homo chi avissi in alcun tempu amatu, 15
ben lu diviria fari
plui dilittusamenti
eu, chi su di tal donna inamuratu,
dundi è dulci placiri,
preiu e valenza e juiusu pariri 20
e di billizi cuta[n]t' abondanza,
chi illu m'è pir simblanza
quandu eu la guardu, sintir la dulzuri
chi fa la tigra in illu miraturi;
chi si vidi livari 25
multu crudilimenti
sua nuritura, chi illa à nutricatu,
e si bonu li pari
mirarsi dulcimenti
dintru unu speclu chi li esti amustratu, 30
chi l'ublia siguiri.
Cusì m'è dulci mia donna vidiri:
chi 'n lei guardandu met[t]u in ublianza
tutta'altra mia intindanza,
sì chi instanti mi feri sou amuri 35
d'un culpu chi inavanza tutisuri.
Di chi eu putia sanar;
multu legeramenti,
sulu chi fussi a la mia donna a gratu
meu sirviri e pinari; 40
m'eu duitu fortimenti
chi quandu si rimembra di sou statu
nu lli dia displaciri.
Ma si quistu putissi adiviniri,
ch'Amori la ferissi de la lanza 45
chi mi fer' e mi lanza,
ben crederia guarir de mei doluri,
ca sintiramu equalimenti arduri.
Purriami laudari
d'Amori bonamenti, 50
com'omu da lui beni ammiritatu;
ma beni è da blasmari
Amur virasementi,
quandu illu dà favur da l'unu latu,
chi si l'amanti nun sa suffiriri, 55
disia d'amari e perdi sua speranza.
Ma eu suf[f]ru in usanza,
chi ò vistu adessa bon sufrituri
vinciri prova et aquistari hunuri.
E si pir suffiriri, 60
ni per amar lialmenti e timiri,
homo aquistau d'Amur gran beninanza,
digu avir confurtanza
eu, chi amu e timu e servi a tutt'uri
cilatamenti plu chi altru amaduri. 65


Assai mi placeria


Assai mi placeria
se zo fosse ch'Amore
avesse in sè sentore
di 'ntendere e d'audire:
ch'eo li rimembreria, 5
como fa servidore
per fiate a suo segnore,
meo luntano servire;
e fariali a savire
lo mal di ch'eo non m'oso lamentare 10
a quella che 'l meo cor non pò ubriare.
M'Amor non veo, e de lei so temente,
per che meo male adesso è plu pungente.
Amor sempre mi vede
ed àmi in suo podire, 15
m'eo non posso vedire
sua propia figura.
M'eo so ben di tal fede,
poi c'Amor pò ferire,
che ben pote guarire 20
secondo sua natura.
Zo è che m'asigura,
per ch'eo mi dono a la sua volontate
como cervo cacciato, mante fiate,
che, quando l'omo li crida plu forte, 25
torna ver lui non dubitando morte.
Non deveria dottare
d'Amor veracemente,
poi liale ubidente
li fu da quello giorno 30
che mi seppe mostrare
la gioi che sempre ò 'n mente,
che m'à distrettamente
tutto ligato intorno,
come fa l'unicorno 35
d'una pulzella vergine dorata,
ch'è da li cacciatori amaistrata,
de la qual dolzemente si 'nnamura,
sì che lo liga e quegli no nde cura.
Poi che m'appe ligato, 40
isò gli ocli e sorrise,
sì c'a morte mi mise,
come lo badalisco
c'ancide che gli è dato;
cum soi ogli m'ancise! 45
La mia mort' è cortise
ch'eo moro e poi rivisco,
Oy Deo, che forte visco
mi par che s sia [a]preso a le mie ale!
Chè viver nè morire non mi vale, 50
com'om che 'n mare vedesi perire
e camperia potesse in terra gire.
Terra mi fora porto
di vita e seguranza;
ma merzede e dottanza 55
mi ristringe e fa muto,
da poi mi sono accorto
d'Amor chi no m'avanza;
chè per lunga astetanza
lo giudeo è perduto. 60
E s'eo non agio aiuto
d'Amor che m'ave e tene in sua pregione,
non so che corte mi faza rasone.
Faragio como penetenzïale,
che spera bene sofferendo male. 65



Assai cretti celare

Assai cretti celare
ciò che mi conven dire,
ca lo troppo tacere
noce manta stagione,
e di troppo parlare
può danno adivenire:
per che m'aven temere
l'una e l'altra cagione.
Quand'omo ha temenza
di dir ciò che convene,
levemente adivene
che 'n suo dire è fallenza:
omo temente no è ben suo segnore;
per che, s'io fallo, il mi perdoni Amore.



Certo ben so' temente
di mia voglia mostrare;
e quando io creo posare,
mio cor prende arditanza;
e fa similemente
come chi va a furare,
che pur veder li pare
l'ombra di cui ha dottanza,
e poi prende ardimento
quant'ha magior paura.
Così Amor m'asicura,
quando più mi spavento,
chiamar merzé a quella a cui so' dato;
ma, poi la veo, ublio zo c'ho pensato.



Dolce m'è l'ublïanza,
ancor mi sia nocente,
ch'eo vivo dolzemente
mentre mia donna miro;
ed honne gran pesanza,
poi ch'io so' canoscente
ch'ella non cura nente
di ciò dond'io sospiro.
piango per usagio,
come fa lo malato
che si sente agravato
e dotta in suo coragio,
ché per lamento li par spesse fiate
li passi parte di ria volontate.


Così pianto e lamento
mi dà gran benenanza,
ch'io sento mia gravanza
per sospiri amortare;
e dammi insegnamento
nave ch'ha tempestanza,
che torna in allegranza
per suo peso allegiare.
E quando agio al[l]egiato
de lo gravor ch'io porto,
io credo essere in porto
di riposo arivato;
così m'aven com'a la cominzaglia:
ch'io creo aver vinto, ancor so' a la bat[t]aglia.


Però com'a la fene
vorria m'adivenisse,
s'Amor lo consentisse,
poi tal vita m'è dura,
che s'arde e poi rivene:
ché forse, s'io m'ardesse
e di nuovo surgesse,
ch'io muteria ventura;
o ch'io mi rinovasse
come cervo in vechiezze,
che torna in sue bellezze:
s'essa mi ritrovasse,
forse che rinovato piaceria



[continua...]
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"I always hope for the best. Experience, unfortunately, has taught me to expect the worst."
Elim Garak DS9

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