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Ancora sulla Scuola poetica siciliana



La scuola poetica siciliana è la prima forma di letteratura laica in Italia. Suo promotore fu l'Imperatore Federico II di Svevia. Questa scuola vide il suo apice tra il 1230 e il 1250. Nasce come una poesia di corte, infatti autori dei più noti sonetti sono lo stesso Federico II e membri della sua corte quali il suo logoteta Pier delle Vigne, Re Enzo, figlio di Federico, Rinaldo d'Aquino, Jacopo da Lentini funzionario della curia imperiale, Stefano protonotaro da Messina, ecc. La lingua usata era il siciliano o meglio il siculo-appulo.

Tale esercizio letterario fu voluto dallo Svevo per amore verso la poesia o, per intento più alto, per unificare linguisticamente il suo regno nel sud dell'Italia. Viene quindi detta scuola poetica siciliana e "siciliani" sono detti i rimatori che aderiscono a questa corrente anche se non sempre si trattava di poeti meridionali, vedasi per esempio Percivalle Doria.

La scuola sarebbe la risposta italiana alla poesia provenzale, ma se pure da essa ha preso le mosse non si può negarle una sua originalità. Nella poesia siciliana notiamo delle immagini e delle metafore tipiche anche della poesia araba che a Palermo aveva ancora forti radici: se ne possono notare gli influssi anche in documenti emessi dalla curia o in epistole private scritte da alti funzionari.





Rinaldo D'Acquino

Appartenente alla nobile famiglia dei d’Aquino, individuato con Rinaldo fratello di San Tommaso d’Aquino, viene nominato nei documenti con il titolo di «messere», riservato all'epoca alle persone di prestigio.

È uno dei primi esponenti della scuola siciliana. Dante si riferisce a questo poeta come il «meridionale del continente», per la poesia proposta qui di seguito.

Come poeta della scuola poetica siciliana Rinaldo ha avuto notevole successo per un altro suo brano, il lamento di una donna afflitta dalla partenza del proprio uomo alla crociata del 1227-28, quella che vide partecipe l'imperatore.



Per fin'amore vao sì allegramente

ch'io non aggio veduto

omo che 'n gio' mi poss'apareare;

e paremi che falli malamente

omo c'ha riceputo

ben da signore e poi lo vol celare.

Ma eo no 'l celaraio,

com'altamente Amor m'ha meritato,

che m'ha dato a servire

a la fiore di tutta caunoscenza

e di valenza,

ed ha bellezze più ch' eo non so dire:

Amor m'ha sormontato

lo core in mante guise e gran gio' n'aggio.



Aggio gio' più di null' om certamente,

c'Amor m'ha sì ariccuto,

da che li piace ch' eo la deggia amare:

poi che de le donne [ella] è la più gente,

sì alto dono aio avuto,

d'altro amadore più deggio in gioi stare;

ca null' altro coraggio

non poria aver gioi ver' cor 'namorato.

Dunqua, senza fallire,

a la mia gioi null'altra gioi sì 'ntenza,

ne[d] ho credenza

c'altr'amador potesse unque avenire,

per suo servire, a grato

de lo suo fin' amore al meo paraggio



Para non averia, sì se' valente,

ché lu mond' ha cresciuto

lo presio tuo sì lo sape avanzare.

Presio d'amore non vale neente,

poi donn' ha ritenuto

in servidore, ch'altro vol pigliare:

ché l'amoroso usaggio

non vol che sia per donna meritato

più d'uno a ritenere;

ched altrui ingannare è gran fallenza

in mia parvenza.

Chi fa del suo servire dipartire

quello ch'assai c'è stato

senza malfare, mal fa signoraggio.



Signoria vol ch' eo serva lealmente,

che mi sia ben renduto

bon merito, ch'eo non saccia blasmare;

ed eo mi laudo che più altamente

ca eo non ho servuto

Amor m'ha coninzato a meritare:

e so ben che seraggio

quando serò d'Amor così 'nalzato.

Però vorria complere,

con' de' fare chi sì bene inconenza;

né[d] ho credenza

ch'unque avenisse ma' per meo volere

si d'Amor non so' aitato

in più d'aquisto ch'e o non serviraggio.


[continua...]
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